“Io, costretto a licenziarmi e abbandonato dalle istituzioni” - Diritto di critica
Umiliazioni, vessazioni psicologiche e aggressioni verbali che lasciano il segno. L’ufficio che si trasforma in una prigione. Datori di lavoro che non riconoscono la professionalità del proprio dipendente e tendono a ghettizzarlo prima delle dimissioni “forzate”. Di per sé il quadro è allarmante e la situazione si fa ancora più delicata se si pensa che a subire il mobbing è un ragazzo disabile, impiegato presso una multinazionale e assunto come categoria protetta.
La pratica del mobbing indica “un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, umiliazioni ed emarginazione), perpetrato da parte di uno o più individui nei confronti di un altro, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica della persona”. La storia di Francesco R. (nome fittizio: “preferisco mantenere l’anonimato”, spiega) ha inizio nel febbraio del 2007: “Vengo assunto con un contratto a tempo determinato – racconta a Diritto di Critica –. Teoricamente avrei dovuto svolgere le mansioni di amministratore e controllare le presenze dei lavoratori per le buste paga, ma ben presto mi accorgo che avrei dovuto svolgere anche l’incarico di direttore del personale. La gestione delle risorse umane – continua Francesco – non era prevista nel mio contratto di assunzione”.
Quando viene chiamato un nuovo direttore del personale, i compiti per Francesco non diminuiscono, anzi: “Il peso dell’organizzazione dei lavoratori rimane su di me. Iniziano i richiami verbali, le umiliazioni in pubblico davanti ai miei colleghi. Vengo demansionato fino a non svolgere più i compiti per i quali ero stato assunto. Mi limitavo a fare le fotocopie e a rispondere al telefono”. L’articolo 2103 del codice civile definisce il demansionamento come “l’assegnazione a mansioni non relazionate all’inquadramento contrattuale e la sottrazione di tutte le mansioni in precedenza esercitate”. Francesco non avrebbe dovuto svolgere la funzione di organizzatore delle risorse umane, perché l’incarico non era previsto nel suo contratto di assunzione. Ma per l’effettiva assegnazione, da parte del datore di lavoro, a mansioni superiori, il ragazzo avrebbe avuto diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e a uno stipendio più consistente rispetto a quello di impiegato amministrativo. Cosa che non è avvenuta. Anche la stessa tipologia del contratto di assunzione (tempo determinato per 1 anno, con successivo rinnovo) non era legittima. Nel caso delle persone disabili, infatti, il contratto a tempo determinato è da intendersi a tempo indeterminato.
Per non parlare dell’azione giudiziaria per chiedere la condanna del datore di lavoro. Sia per il reintegro alle mansioni svolte in precedenza, sia per reclamare il risarcimento del danno subito alla professionalità e all’immagine. “Sono stato messo da parte nel corso del tempo – denuncia Francesco – e al posto mio è stata assunta un’altra persona: immagino che questa scelta non sia stata casuale. Da quando è stato chiamato, il direttore del personale ha cercato di far assumere delle persone di sua fiducia in azienda. E tra queste anche quella mi ha sostituito. Le persone chiamate hanno avuto da subito un contratto a tempo indeterminato, con un salario più alto e la sicurezza di corsi di aggiornamento e di lingua che a me sono stati negati. Nonostante le mie competenze fossero superiori”.
Iniziano così i problemi personali di Francesco: “Ho assunto psicofarmaci, entrando in un vortice sempre più profondo. Al lavoro venivo escluso dai corsi di aggiornamento professionale e da quelli di lingua ma, dopo essere stato lasciato fuori, ero rassicurato sul rinnovo del mio contratto, cosa che nei fatti non sarebbe avvenuta. Dopo la prima conferma, nel dicembre del 2008 (a 2 mesi dalla fine del contratto), capisco che non avrei avuto più chance di lavorare in azienda. A quel punto – precisa Francesco –, dopo l’ennesimo richiamo da parte del direttore del personale, rassegno le dimissioni. Era il 14 gennaio del 2009 e da quel giorno sono disoccupato”.
Proprio l’induzione all’abbandono del lavoro è il fine delle pratiche di mobbing. Il licenziamento causerebbe imbarazzo all’azienda. Diretta conseguenza della perdita del posto di lavoro sono complicazioni di salute fisica e mentale. “Non avevo mai conosciuto problemi legati all’alcolismo o all’assunzione di psicofarmaci – spiega Francesco -. Ci sono certificati medici che attestano un mio lunghissimo stato di depressione, causato dai comportamenti dei miei datori di lavori. Ho tuttora problemi di memoria”.
Alle complicazioni di salute si affiancano la difficoltà di comunicare con gli enti pubblici e i problemi finanziari: “Ho scritto al Comune di Roma, alla Provincia e alla Regione Lazio – dice Francesco –, ma non c’è stato nulla da fare. Ho provato a chiamare anche lo sportello Antiusura, ma pretendono delle garanzie che io non posso dare. Sono sposato e ho un figlio. Ho anche uno sfratto in corso. Non ci sono strumenti per aiutare le persone svantaggiate”.
Recuperata la lucidità mentale, Francesco ha deciso di fare causa ai propri datori di lavoro e il processo si celebrerà a giugno prossimo. “Devo vedermi riconosciuti dal giudice circa 75mila euro, come indennizzo per gli stipendi arretrati. Chiedo di essere reintegrato al lavoro e che il mio contratto sia considerato a tempo indeterminato dal primo giorno della mia assunzione. L’azienda ha utilizzato una forma contrattuale poco consona ad una persona disabile. Ogni impresa dovrebbe prestare attenzione al fatto che lo stato di salute del diversamente abile non venga pregiudicato”.
Chi volesse approfondire e prendere contatti per conoscere i dettagli della testimonianza, oppure offrire un proprio contributo, può rivolgersi alla redazione.
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In Italia il mobbing non è un reato purtroppo, manca una legge che stabilisca che il mobbing è un reato come esiste in altre democrazie più avanzate da questo punto di vista.
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