Osama, Saramago e il velo della cecità - Diritto di critica
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- 11 Maggio 2011 Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
Scritto per noi da Marco Migliorelli
Il 2 maggio scorso come tutti, apprendo della morte di Osama Bin Laden. Una foto, rivelatasi poi un falso clamoroso, si moltiplica nel web mentre corre all’impazzata sul filo sottilissimo dell’ufficialità. In anticipo di qualche mese sul decennale dell’attacco all’America; in tempo per una commemorazione diversa; in tempo affinché alla parola venga affidato il compito di tradurre la realtà di un nuovo scenario. L’immagine del mondo va in onda senza interruzioni, le sue modifiche sono velocissime ed impercettibili. Tutto evolve innanzi alle nostre palpebre instancabili. Osama è stato un segno. Per dieci anni è apparso ma in video sempre più rari – voce e immagine provenienti da un universo blindato e difficilmente localizzabile -, fino a diventare un volto familiare nel rumore della ricezione passiva. Certo è che ormai nemmeno la morte ci restituirà la carne della sua realtà; il corpo della sua esistenza. Mi chiedevo, come si può creder morto chi è un’immagine?
Ed eccolo il bisogno di guardare. Ecco l’urgenza di dare un volto alla categoria del male e quindi al dolore, alla rabbia, all’incredulità. Dare un volto. Nell’annegamento degli altri sensi, al guardare è demandata ogni funzione conoscitiva. Per giorni ho seguito la vicenda di un’immagine proibita più forte della notizia stessa della morte del leader di Al Qaeda.
Mentre fra gli analisti si discute il potenziale incendiario delle fotografie del suo cadavere, la morte di Bin Laden già scava nell’immagine l’icona e non ha ora più importanza comprendere l’effettivo peso dell’uomo Osama sul piano operativo.
Il rapporto fra il segno e il suo significato, la sua referenzialità sono completamente affidate all’atto compulsivo del guardare. Le parole, i ragionamenti, se ben indirizzati, frantumano quell’immagine così compatta e consistente per quasi un decennio, in una costellazione di direzioni differenti. Rivelano ancora una volta l’ovvia mancanza di un centro del problema. Eppure resta forte pur nella consapevolezza, il potere dell’immagine. Privata dell’immagine la notizia vacilla come un colosso scagliato nell’eterno presente dell’informazione.
Poi appare Obama che annuncia: nessuna fotografia. E così lo schermo si spegne e cieca, rimane soltanto questa ostinazione al “guardare”. La blank page di questo instancabile occhio che è lo schermo (o viceversa?) e che nel suo infinito riproporre “segni” non lascia il tempo di leggerli veramente, decifrarli e comprenderli. Ma è davvero questo il conoscere, o non si tratta più diffusamente di una sorta di voyeurismo collettivo, spesso inconscio, che si sostituisce ai parametri della conoscenza come anche dell’informazione se non della realtà stessa? Non è questa una forma di cecità?
“…l’agnosia, lo sappiamo, è l’incapacità di riconoscere quel che si vede”, a rispondermi è Josè Saramago, dalle pagine di un suo celebre romanzo, approdato in italia negli anni Novanta: “Cecità”.
Un morbo che si fa beffe di secoli di storia della medicina, colpisce l’umanità sprofondandola nel bianco latteo di una cecità improvvisa. La degenerazione distopica della situazione sociale da una parte sonda l’ipoteticità di un mondo negato alla vista dell’essere umano e in cui a sua volta l’essere umano è negato alla vista di se stesso a capofitto nella solitudine; dall’altra è solo un’iperbole che dietro la sua vivida e alle volte cruda e voluta esagerazione, riflette una realtà già in atto: la cecità del troppo guardare.
Presentandoci una società di ciechi, Saramago smaschera quella dei vedenti ed è questo il punto: “…ciechi negli occhi e ciechi nei sentimenti, perché i sentimenti con i quali abbiamo vissuto e che ci hanno fatto vivere come eravamo sono nati perché avevamo gli occhi, senza di essi i sentimenti si trasformeranno, non sappiamo come, non sappiamo in quali…”. Seppur forte della vista fisica che gli permette di leggere, il lettore si chiede quantomeno, sono sicuro di vedere?
Un eccesso di immagine forma il nostro sentimento del mondo; crea la realtà così come effettivamente crediamo che sia. Satura del bianco lo spazio di ogni palpebra.
L’epopea della foto di Osama è ancora una volta la parabola del segno come assoluto che si sostituisce al fatto, alla persona, alla realtà stessa che dietro quell’immagine sola nasconde una parvenza di verità. Chi guarda è cieco e lo è per Osama così come nel piccolo del nostro particolare nazionale per Sarah Scazzi, con la sua pantomima di occhi curiosi e onanisticamente ammassati dietro una cancellata, nudi o meccanizzati dagli orpelli della tecnologia.
Siamo sicuri di vedere?
La grande importanza del romanzo di Saramago sta allora nel suo saper denunciare attraverso la cecità l’importanza di saper vedere, rivelando questa stessa cecità come la caratteristica di una società di vedenti che è già reale, che è già qui e che ci comprende.
Divisione, prevaricazione e quella incapacità di vedere che nel romanzo è fisica e che nella realtà è pari a un sonno di immagini senza fine. “si suole addirittura dire che non esistano le cecità, ma i ciechi, quando l’esperienza non ha fatto altro che dirci che non esistono i ciechi, ma le cecità”.
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