Peppino Impastato: una storia ancora da raccontare - Diritto di critica
1,2,3,4… Arrivate fino a cento. Cento passi tra la casa di Peppino Impastato e il boss Gaetano Badalamenti. Pochi metri di distanza fisica, un abisso di lontananza tra due modi di vivere, di pensare alla società e alla libertà.
1,2,3,4… Quanto si deve contare per sapere tutte le vittime di mafia? Lui, Peppino Impastato, è solo una delle tante (anzi, all’inizio si parlava di tentato atto terroristico e poi di suicidio), un numero in quella minoranza silenziosa che dopo la sua morte ha però iniziato ad alzare la voce, a dimostrare la forza di chi pian piano si ribella al potere della criminalità organizzata, in Sicilia prima e in Italia poi. Quando la mafia ha paura, uccide.
1,2,3,4…9. 9 maggio 1978. Non è un giorno qualunque. E non solo perché Peppino Impastato, a trent’anni appena, viene trovato assassinato lungo i binari a Cinisi, Palermo. Quella stessa mattina tutta l’Italia è scioccata alla vista, in diretta televisiva, del corpo senza vita dell’onorevole Aldo Moro, riverso nel bagagliaio di una macchina in via Caetani a Roma. Terrorismo e mafia, i mali dell’Italia post-boom economico racchiusi in due eventi vili e terribili, scoperti in un unico giorno.
Peppino è stato ucciso perché ha osato, 35 anni fa, opporsi alla legge non scritta che dominava nel suo paese, legge alla quale sottostava la sua stessa famiglia. Il padre e gli zii erano affiliati ad una cosca mafiosa alleata con i Corleonesi: lui, ragazzo minuto dai lineamenti spigolosi e una luce particolare negli occhi, non ci sta. Sin da giovanissimo taglia i ponti con il padre e si butta anima e corpo nell’impegno civile e politico.
È come predicare nel deserto, ma siamo nei turbolenti anni Settanta, e forse qualcosa si sta muovendo. Peppino si schiera a fianco dei giovani come lui, dei disoccupati, dei contadini espropriati per la costruzione della famigerata terza pista dell’aeroporto di Palermo, proprio nel territorio di Cinisi. Affari sporchi dietro quella pista e dietro tutto lo scalo di Punta Raisi: in ballo c’è il controllo dei traffici internazionali di droga. A capo di quegli affari il padrone/padrino di Cinisi: Gaetano Badalamenti, boss in decadenza ma pur sempre boss, il vicino di casa che dorme sonni tranquilli a soli cento passi da Impastato.
Tano, “don” Tano per chi lo teme e gli obbedisce, diventa ben presto il simbolo della lotta di Peppino, l’emblema della potenza mafiosa che il giovane attivista vuole sfidare. Quando nel 1977 nasce Radio Aut, emittente autofinanziata messa in piedi nella piccola Cinisi, pochi credono nell’influenza che la radio può avere su chi ascolta, specialmente sui giovani irrequieti di fine decennio. Accuse, denunce, racconti di storie locali che sembrano stridere con la calma apatica di un paese anestetizzato dalla mafia. Il programma di satira “Onda pazza” sbeffeggia politici e mafiosi e inchioda alle proprie responsabilità Gaetano Badalamenti, ironicamente apostrofato con il nome di “Tano seduto”. L’intuizione è geniale quanto moderna: le parole colpiscono più di mille processi, l’accusa pubblica macchia per sempre il prestigio del boss e apre uno squarcio nel muro di silenzio innalzato nelle terre di mafia. Peppino nomina a chiare lettere il nemico, lo ridicolizza, ne sminuisce la figura. Cerca di esorcizzare la paura che il padrino incute chiamando le cose con il loro nome. La paura, infatti, aggredisce in maniera più decisa quando a suscitarla è qualcosa che non si conosce.
Ma Impastato non è stato solo Radio Aut. Ha capito prima di altri l’importanza dei mezzi di comunicazione, della cultura come strumento di lotta all’illegalità, all’omertà mafiosa. Già nel 1965, a soli 17 anni, aveva fondato il giornalino locale L’idea socialista e nove anni dopo costituito con i compagni di militanza il gruppo culturale Musica e cultura, regno di dibattiti, concerti, teatro e cineforum. Riassume bene la storia del giovane di Cinisi il giornalista Rai Roberto Olla, nel suo libro “Padrini”: «Con una miscela di coraggio e incoscienza – spiega – Peppino Impastato si lanciò in un’iniziativa molto pericolosa. Coraggio perché attaccò il capo della famiglia di suo padre. Incoscienza perché proseguì anche quando si rese conto di essere solo».
Ci vuole tempo per far sciogliere un iceberg o per abbattere un muro di cemento armato. Peppino muore solo, in una notte di maggio del 1978. Era candidato alle elezioni del consiglio comunale di Cinisi, nella lista di Democrazia Proletaria. I sicari di Badalamenti non vogliono lasciare tracce: la mafia desidera che di questo ragazzo non rimanga memoria. Ma il suo eroismo piano piano vince. Vince perché cinque giorni dopo la morte gli abitanti del suo paese lo eleggono simbolicamente consigliere comunale. Vince perché un anno dopo viene organizzata la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d’Italia.
In realtà ancora oggi non tutti conoscono la sua storia, se non per qualche reminiscenza televisiva o cinematografica o per il nome che appare su targhe polverose di scuole, università e parchi. In pochi sanno che Don Tano, mandante dell’omicidio, è stato condannato all’ergastolo solo nel 2002, dopo un’estenuante battaglia giudiziaria condotta dalla madre e dal fratello di Impastato a colpi di ricorsi (durante uno dei quali, nel 1999, anche l’Ordine dei giornalisti si è costituito parte civile nel procedimento). Il suo vice, Vito Palazzolo, era finito in manette l’anno prima, dopo la decisiva testimonianza del pentito Salvatore Palazzolo, il fratello. Anche per tutto questo la storia di Peppino Impastato merita ancora di essere raccontata.
1,2,3,4…100. È un attimo arrivare a casa Badalamenti. Ora possiamo entrare. Mutevole è il corso delle cose; qui adesso c’è l’“Associazione Culturale Peppino Impastato”, che ha ricevuto l’ex palazzina del boss dal Comune di Cinisi. I cento passi si annullano in un istante, e non pesano più come macigni. Peppino sarebbe un po’ meno solo di quando scriveva: “..Passeggio per i campi con il cuore sospeso nel sole. Il pensiero, avvolto a spirale, ricerca il cuore nella nebbia..”.