Viaggio a Campo Ashraf, roccaforte della dissidenza iraniana - Diritto di critica
Se tornassero in Iran verrebbero impiccati, accusati di “mohareb”, di essere “nemici di Dio”. Eppure anche le forze militari irachene aumentano di giorno in giorno le pressioni, nel silenzio di una stampa mondiale concentrata su altre zone del Medio Oriente, su quella Libia infiammata dalla bombe e dagli interessi: sono gli abitanti di Campo Ashraf, città sul confine tra Iran e Iraq considerata la roccaforte della resistenza iraniana al regime religioso dei Mullah: l’ultimo attacco risale all’8 aprile scorso, quando un blitz dell’esercito iracheno ha provocato 34 vittime e centinaia di feriti, in un territorio i cui abitanti sarebbero protetti dalle forze internazionali e dalla IV Convenzione di Ginevra, che li ha riconosciuti come cittadini protetti, e che dovrebbe essere neutrale. Dovrebbe, appunto. Perché quella neutralità è stata violata da un pezzo.
E’ un articolo di Annamaria Franchina sull’Eco di Bergamo del 5 maggio a riportare alla luce e descrivere nel dettaglio una vicenda che rischia di essere dimenticata sotto il fragore delle rivolte nel resto del Medio Oriente Campo Ashraf ospita oltre 3.400 persone, per lo più appartenenti al gruppo dei Mujahedin per il Popolo Iraniano (Pmoi), principale gruppo di opposizione al regime di Teheran e maggiore movimento della Resistenza Iraniana (Cnri), organizzazione di dissidenti iraniani con sede a Parigi. Per combattere il totalitarismo di stampo religioso installatasi in Iran, negli anni Ottanta i Mujahedin avevano ottenuto da Saddam Hussein la possibilità di insediare i propri campi nell’area irachena desertica a cavallo del confine tra i due Paesi. Nel 2003, dopo l’attacco americano in Iraq, i membri del Pmoi avevano stretto un accordo con le Forze di Coalizione ed accettato di riunirsi nella loro base più ampia, appunto Campo Ashraf: i cittadini iraniani lì raggruppatisi avevano poi ottenuto lo status di cittadini protetti – e quindi tutelati dalla IV Convenzione di Ginevra e dalle Nazioni Unite– dopo che era stata accertata la loro estraneità a qualunque cellula di terrorismo islamico. Nel corso degli anni seguenti Campo Ashraf si è trasformata da base militare senza strade, acqua e corrente ad una vera e propria cittadina di quasi 3.500 abitanti, diventando così il simbolo della resistenza iraniana al regime. «Ashraf non è semplicemente una base per gli esuli iraniani, – ha ripetuto in più occasioni Maryam Rajavi, presidente del Cnri – Ashraf è il centro di tutti coloro che vivono e lottano per la speranza della democrazia in Iran e che hanno scelto di sacrificare le proprie vite per liberare il popolo dalla dittatura religiosa».
Una realtà difficile da accettare per un regime come quello iraniano, che ha fatto della repressione delle voci di libertà la principale arma del suo potere e della tirannia religiosa la sua principale forza. E se la situazione è rimasta stabile per parecchi anni, nel 2009 ha iniziato a peggiorare, a seguito del ritiro delle truppe americane dall’Iraq e la conseguente partenza anche degli osservatori nell’Onu, che hanno reso Campo Ashraf facile preda per chi tenterebbe ogni strada pur di distruggerla. Era stata la stessa Maryam Rajavi a lanciare l’allarme: mercenari al soldo dei Mullah erano riusciti ad introdursi nella città, minacciando a più riprese gli abitanti, e nel 2010 si era già verificato un blitz dei militari iracheni. L’8 aprile, un’altra strage. «Il governo americano, l’Unione Europea e le Nazioni Unite erano state informate da una settimana dei movimenti militari iracheni che hanno preceduto il massacro dei cittadini iraniani dell’8 aprile», ha reso noto durante una conferenza internazionale a Parigi la Rajavi, secondo la quale essi sono dunque «colpevoli dello spargimento di sangue avvenuto ad Ashraf». Sempre la Rajavi ha inoltre evidenziato alla comunità internazionale l’aumento delle pressioni, degli arresti arbitrari e delle “esecuzioni intimidatorie” a cui sono sottoposti in Iran i parenti dei membri del Pmoi residenti a Campo Ashraf. Un allarme che a metà aprile aveva già lanciato anche Amnesty International ed altre organizzazioni per i diritti umani, che hanno chiesto la tutela della popolazione di Ashraf dagli attacchi e dalle pressioni dell’esercito iracheno.
Ora si chiede l’istituzione di una commissione d’inchiesta per fare chiarezza su quanto accaduto l’8 aprile e un intervento dell’Onu per proteggere gli abitanti della città: il governo iracheno ha tuttavia negato al rappresentante delle Nazioni Unite in Iraq Ad Melkert e all’Alto rappresentante dell’Unione Europea Catherine Ashton l’accesso a Campo Ashraf e confermato la paventata intenzione di chiudere il campo entro la fine dell’anno. Un’intenzione che renderebbe quanto mai incerto e pericoloso il futuro per i “dissidenti” che vivono a Campo Ashraf.