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Diritto di critica | November 21, 2024

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Siria, non si ferma il bagno di sangue - Diritto di critica

Siria, non si ferma il bagno di sangue

Non si ferma il bagno di sangue in Siria. Una lunga lista di vittime e  sparizioni che si srotola giorno dopo giorno per le strade di Deraa, di Homs, di Damasco, delle principali città siriane. Le ultime stragi quelle di venerdì scorso, il “venerdì della collera” – nel quale sarebbero state uccise almeno 64 persone, tra cui due bambini, durante le manifestazioni anti-Assad, e 9 membri delle forze di sicurezza  – e di sabato 30 aprile a Deraa, quando in occasione dei funerali delle vittime almeno 6 persone sarebbero state uccise dai cecchini e dall’irruzione di 15 blindati nella città. E nel frattempo, secondo le parole dei testimoni siriani e degli attivisti per i diritti umani che dall’inizio delle proteste cercano di portare luce sulle brutali repressioni, continuano gli arresti arbitrari e le retate da parte delle forze di sicurezza e dell’esercito.

Sono infatti almeno 217 le persone sparite in Siria a partire dallo scorso venerdì 22 aprile. Lo rende noto Wissam Tarif, direttore esecutivo del gruppo siriano per i diritti umani Insan dalle pagine del New York Times, in un articolo del 24 aprile scorso: una cifra tuttavia parziale, perchè in continua crescita. Tarif ha compilato la lista con i nomi di tutte le persone scomparse negli ultimi giorni: almeno 70 proverrebbero dall’area attorno alla capitale, Damasco, e 68 da Homs, terza città più grande del Paese, nonché sede di alcune forti proteste la scorsa settimana. Secondo la sua testimonianza in totale sarebbero scomparse persone da 17 diverse città e villaggi della Siria. «Tutto questo non si fermerà,  – aggiunge Tarif al NYTimes – i nomi continuano ad aumentare. Ci saranno altri spargimenti di sangue». Una macabra previsione confermata dagli eventi degli ultimi giorni.

Secondo l’operatore per i diritti umani, le sparizioni rischiano di rappresentare un segno evidente del fatto che il governo di Damasco sia pronto ad un ulteriore e più ampio giro di vite per arginare e bloccare le proteste che ormai da settimane scuotono il Paese e che hanno causato finora centinaia di vittime. L’atteggiamento del governo siriano nei confronti delle rivolte e le recenti sparizioni si presentano  infatti come un’aperta contraddizione con quanto sostenuto da Bashar al Assad, che aveva annunciato la revoca dello stato di emergenza in vigore nel paese dal 1963 in un estremo tentativo di calmare la popolazione e le sue richieste di riforme politiche ed economiche e dell’abbandono del potere da parte della famiglia Assad: gli ultimi giorni si sono invece configurati come i più cruenti dall’inizio delle sollevazioni.

La giornata di venerdì 22 aprile – quando il regime ha deciso l’invio di carri armati per sedare le rivolte a Deraa, attualmente rimasta senza luce né acqua, e l’esercito ha aperto il fuoco in 14 diverse città siriane –  ha rappresentato un punto di svolta nella protesta siriana: «dopo la carneficina di venerdì – ha affermato al riguardo Joe Stork, direttore delegato del Medio Oriente per  Human Rights Watch – non è più sufficiente limitarsi a condannare la violenza in Siria». L’organizzazione per i diritti umani unisce il suo appello a quello delle ong locali, chiedendo che venga aperta un’inchiesta internazionale per fare chiarezza sulle stragi, e preme inoltre sulle Nazioni Unite, sugli Stati Uniti e sull’Europa affinché vengano imposte sanzioni sugli ufficiali responsabili dei massacri e della detenzione di centinaia di manifestanti.

Gli ultimi dati, forniti dall’ong siriana Sawasiah, parlerebbero infatti di più di 500 vittime civili, migliaia di arresti e centinaia di sparizioni: un bilancio tragico, al quale si aggiungono secondo l’agenzia France Press centinaia di siriani in fuga verso il Libano a causa di disordini scoppiati anche nella città di frontiera Tall Kalakh. Testimonianze dai dintorni di Damasco raccontano inoltre di  come domenica le forze di sicurezza abbiano circondato i centri abitati nei sobborghi della capitale e fermato chiunque tentasse di entrare o uscire, «in un apparente tentativo – si legge sul NYTimes – di impedire ai manifestanti di marciare sulla capitale, roccaforte del potere della famiglia Assad per gli ultimi 40 anni».