«Uccisi da chi non li ha soccorsi»: un'altra strage nel Canale di Sicilia - Diritto di critica
Vittime del mare e della disperazione, quella che spinge a partire e a rischiare il tutto per tutto, anche se davanti al gommone sovraffollato c’è solo acqua per miglia intere. Forse perché ciò che c’è dietro – la guerra, le persecuzioni, i militari di Gheddafi – è ancora peggio. E allora via, nel Mediterraneo, alla ricerca di una rotta per la salvezza. Erano in 72 sul gommone partito da Tripoli il 25 marzo. Ne sono sopravvissuti 11. Il bilancio dell’ennesima tragedia in mare è tragico, ma di questa strage – silenziosa perché avvenuta fuori dalle acque italiane – nessuno parla. Forse perché bisognerebbe aggiungere altro: che quel gommone qualcuno l’aveva visto, qualcuno l’aveva incrociato. Navi militari, pescherecci ed anche un elicottero che aveva fornito da bere alle persone a bordo e poi era sparito. Ma nessuno l’aveva soccorso.
La denuncia arriva da don Mussie Zerai, sacerdote direttore dell’ong Habeshia che da mesi segue le vicende dei profughi in fuga dai paesi del Corno d’Africa e stranded, arenati in Libia a seguito dei respingimenti attuati dall’Italia, oppure presi in ostaggio nel deserto del Sinai dopo aver cercato nuove vie per raggiungere Israele o l’Europa. Allo scoppiare delle rivolte in Libia, la situazione dei profughi africani del paese si è fatta particolarmente difficile e Zerai è sceso in campo con appelli e denunce per sollecitare un intervento della comunità internazionale o delle Nazioni Unite a favore di queste persone. Anche ora, che fuggono in massa dal paese dilaniato. «Il diritto internazionale marittimo obbliga di salvare chi si trova in pericolo di vita, – spiega Zerai – ma questo diritto è stato violato da chi ha visto il gommone carico di profughi in fuga dalla guerra in Libia e non è intervenuto».
Sul gommone partito da Tripoli il 25 marzo c’erano 72 persone, tra cui 2 bambini: venivano dalla Nigeria, dal Ghana, dal Sudan, dall’Eritrea e dall’Etiopia. Nel tardo pomeriggio del 26 marzo si sono perse le tracce dell’imbarcazione: è stata localizzata per l’ultima volta a 60 miglia circa da Tripoli, poi più nulla. Habeshia più di una volta ha segnalato la scomparsa del gommone, ma è solo il 19 aprile che si scopre qualcosa di nuovo: Zerai viene contattato da alcuni sopravvissuti alla tragedia, che raccontano il drammatico evolversi della vicenda. Il gommone è rimasto in mare due settimane, fermo perché senza carburante, fino a quando le correnti non l’hanno sospinto di nuovo in Libia, a Zelatien. Di 72 persone ne erano rimaste 11: le altre erano morte di stenti, fame e sete. A Zelatien i superstiti sarebbero stati arrestati dai soldati del Colonnello Gheddafi e messi in carcere, dove altre due persone – un ragazzo e una ragazza – sarebbero morti per mancanza di cure adeguate. Dei 9 rimasti, 7 sarebbero poi stati trasferiti nel carcere di Tuweshia a Tripoli e 2 portati in ospedale a Zelatien. «I sopravvissuti con cui ho parlato – spiega Zerai – hanno raccontato di essere stati incrociati da alcune navi militari e pescherecci, ma nessuno li ha soccorsi. Un elicottero ha addirittura dato da bere alle persone a bordo, ma poi non ha mandato alcun rinforzo. Un uomo mi ha raccontato di aver perso la moglie su quella barca, morta di sete davanti a lui. Quali erano quelle navi militari, chi guidava l’elicottero? Lasciare quelle persone in balia del mare è stato un atto disumano, una deliberata omissione di soccorso». Sempre secondo le ricostruzioni, a guidare il gommone era un ragazzo del Ghana, che aveva chiesto aiuto tramite il telefono satellitare e parlato anche con la guardia costiera italiana, senza riuscire a farsi capire.
«Chiediamo –aggiunge Zerai – che la NATO faccia piena luce su questa vicenda. Perché le istituzioni europee tacciono di fronte ad un atto così grave e crudele? 63 persone sono morte perché qualcuno ha deciso di non soccorrerle: per loro, che hanno perso la loro vita a causa della negligenza di altri, e per le loro famiglie chiediamo giustizia».
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L’Ambasciata dello Stato dell’Eritrea ha diramato una informativa relativa al signor Mussie Zerai, nella quale si specificava la scarsissima attendibilità riscontrata in tutte
le informazioni porte dal medesimo. Personalmente, non riesco a capire come mai un etiopico (Mussie Zerai) si preoccupi tanto degli eritrei e non dei suoi compaesani. Non riesco a capire, ma non mi stupisce; anche in considerazione che ci sono alcuni,
pochi in verità, napoletani che si occupano e si preoccupano, ORA, di un gruppo esiguo di eritrei! -
Carissimo Emilio, indipendentemente dal fatto che nessuno, ripeto NESSUNO, e naturalmente neanche lei può arrogarsi il diritto di attribuire titoli ad un regime, nè tantomeno a porsi a rappresentanza di un Popolo, conosco l’Eritrea, la sua lingua (parlata e scritta), i Suoi usi e costumi, la Sua storia! Voi che cinciate tanto ORA, mi sapete dire dove eravate negli anni 60/70: avete vissuto quel periodo, in quella realtà, per poter dare una ONESTA valutazione? NO! E non avete alcun diritto, ORA, di fare certe valutazioni al di fuori di ogni logicità! Per quattro disertori e tre pseudo preti che scappano con l’illusione di poter fare una bella vita, vi siete fatti una idea totalmente sbagliata. Non meno è quella imposta dai vari Alberizzi e Gatti.
A proposito de somalo Zerai, una logica elementare spingerebbe ad un ausilio PRIMA di tutto i propri fratelli e, poi, eventualmente, gli altri. In quale stato si trova la Somalia? Forse il sig. Zerai non lo sa!
Per cinquanta anni abbiamo avuto la “nostra” colonia! E poi? E ora? E’ al corrente che il p.i.l. attuale dell’Eritrea è al 10%. E’ al corrente delle strategie americane nel “corno d’Africa”: strategie partorite da Bush e che l’attuale amministrazione non ha ancora cancellato? Perchè queste discriminazioni tra l’Eritrea (pop. 3.500.000) e l’Etiopia (pop. 80.000.000 ca)?: c’è sempre la voglia di “soccorrere” il più forte!!!
Cordialmente.
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