All'Occidente la Libia, ai Brics il resto del mondo? - Diritto di critica
L’Occidente ripiegato sulla Libia e sul petrolio, i Brics pronti a prendere il volo. Agli antipodi del pianeta, le due potenze – la Washington calante e gli Emergenti rampanti – mettono in scena i propri interessi, le proprie paure e le aspirazioni di governance globale.
Ore 9, l’Air Force One decolla da Washington per raggiungere il Medio Oriente. Deve portare il presidente Barack Obama in Qatar, in visita all’emiro Hamad bin Khalifa Al-Thani. La situazione è importante: a Doha, capitale del piccolo emirato del Golfo Persico, si riuniscono i ministri e i capi di stato del “gruppo di contatto” della missione Onu in Libia. Si tratta di decidere cosa fare, ora che la No-Fly Zone ha mostrato la sua impotenza. A Misurata si continua a combattere casa per casa nello stillicidio delle vittime civili, il fuoco amico Nato brucia vivi i ribelli nei tank rubati a Gheddafi, l’artiglieria del Rais martella le postazioni nemiche protetta dagli “scudi umani”. Che fare?
La soluzione la dà il principe ereditario del Qatar, presente nella missione con 6 cacciabombardieri Mirage di stanza a Creta. “Armiamo i ribelli”. Ci avevano pensato anche gli occidentali, ma loro devono giustificarsi con le rispettive opinioni pubbliche: devono dimostrare che non vogliono “occupare la Libia”. Il Qatar no. Per la famiglia regnante Al-Thani, la situazione è più lineare: “Cosa sono i ribelli se non civili che hanno preso le armi per difendersi in una situazione difficile?” Banale logica: quella in Libia, per Sheik Tamim bin Hamad Al-Thani, “è una battaglia ad armi impari”. Da riequilibrare. L’alleanza in Libia ha molti prezzi, uno su tutti. L’Occidente, qui a Doha, deve soprattutto rassicurare gli animi in vista di uno scontro con Teheran: l’asse americano ed europeo si è spostato da Israele e punta al Golfo, dove si prepara a difendere il bacino di petrolio a cui attinge (e non sa smettere). I destini sono legati indissolubilmente dall’oro nero.
Dall’altro lato del mondo, sull’isola di Sanya (Cina meridionale), si incontrano i 5 leader del Brics. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica discutono insieme dei problemi “veri” del mondo, lontani dalla bega tutto sommato locale della Libia. Tutti si sono astenuti dal voto della Risoluzione 1973 Onu, e tutti hanno condannato i bombardamenti occidentali. Per i Brics, i caccia di Sarkozy, Cameron, Berlusconi e i tomahawk di Obama violano la Risoluzione Onu e preparano successive violazioni del diritto internazionale.
Ai paesi del Brics il Mediterraneo appare un problema secondario, utile ad impantanare l’occidente per fregarne gli spazi operativi. A loro – giustamente – interessa altro: le aree di influenza economica, le prospettive di sviluppo industriale. E lo fanno disegnando linee di sviluppo del tutto diverse da quelle occidentali.
La Russia punta a presentarsi come fornitore “affidabile” di idrocarburi per i prossimi decenni all’Occidente affamato di energia fossile. Già ha in mano l’Europa (North e South stream in costruzione…), e si dedica ai lucrosi accordi con Pechino. La Cina spinge sulle rinnovabili – ha già scavalcato l’America in termini di tecnologie per pannelli solari – approfondisce i legami di dipendenza con l’Africa equatoriale e si prepara ad “aiutare” il Giappone vicino alla crisi economico-sociale. Il Brasile di Dilma (sulla scia di Lula) punta al monopolio dei biocombustibili, con cui presentarsi all’Onu come naturale rappresentante dell’America Latina. E la bomba atomica, in via di sviluppo mai ufficialmente interrotto, rientra in tale progetto. Il Sudafrica di Zuma? Le mire di espansione economica sono le stesse, ma la priorità è di salvarsi: per non perdere la “corsa all’Africa” con la Cina, ci si allea, cercando nella collaborazione più di quanto otterrebbe nello scontro diretto.
Di fronte a questi interessi, la Libia è davvero niente. Piccola, affossata nel Mediterraneo e rasa al suolo dai “volenterosi” occidentali, non fa gola a nessuno. Sbandierando l’illegalità dell’intervento occidentale, invece, i Brics possono ottenere molto: presentarsi cioè al resto del mondo come i veri “protettori” del diritto internazionale, inteso sempre più come “diritto delle nazioni” invece che dei popoli. D’altronde, chi, se non l’autorità statale, difende i paesi del terzo mondo dalla “globalizzazione coloniale” dell’occidente?