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Diritto di critica | December 22, 2024

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"Un Paese abbandonato alla morte", il genocidio dimenticato del Rwanda - Diritto di critica

“Un Paese abbandonato alla morte”, il genocidio dimenticato del Rwanda

(Scritto per noi da Marco Migliorelli).

Insieme per ricordare un milione di vittime. Da 17 anni aprile è per il Rwanda il mese della commemorazione del Genocidio dei Tutsi, consumato con orrida sistematicità dagli Hutu. Decenni di rivalità etnica sfociavano, il 6 aprile del 1994, nei cento giorni più duri della storia contemporanea dell’Africa.

In una sala spoglia della Basilica del Sacro Cuore, isolati dal caos della stazione Termini, il Gruppo degli studenti sopravvissuti al genocidio (Gaerg) e l’organizzazione Dispora Ruandese in Italia in collaborazione con il Consolato onorario del Rwanda in Italia hanno dato corpo al ricordo di quella che difficilmente può essere considerata una semplice guerra civile. Attraverso immagini e racconti i sopravvissuti di ieri, i protagonisti di oggi.
L’Italia è presente nelle parole e nella persona di Maria Pia Fanfani, da sempre impegnata in prima persona sul fronte umanitario ed in quei giorni del 94 fra i pochi a sfidare l’indifferenza e l’indecisione dell’Occidente passando il confine della morte e portando in salvo i bambini di un orfanotrofio: “Ogni volta che dovevamo attraversare un fiume, intorno a noi scorrevano ovunque cadaveri” racconta; e a chi allora la invitava a rinunciare ad entrare in un paese abbandonato alla morte, rispondeva: “e allora portatemi a morire”. Insieme a Pierantonio Costa, il console italiano che contribuì attivamente al salvataggio di duemila tutsi dai massacri, la Fanfani rappresenta la volontà di singole personalità che sono riuscite ad operare positivamente in Africa, nonostante gli oltre cinquant’anni di discutibile e mal pianificata politica estera italiana dalla fine del colonialismo ad oggi.
L’occasione è buona per una serie di riflessioni sul ruolo dell’Occidente nella Storia dell’Africa quanto mai attuale in questi giorni di guerra in Libia e rinnovati massicci sbarchi a Lampedusa. Uno spunto viene dalle parole di Claudileia Lemes Dias, scrittrice brasiliana ed editore presso la Compagnia delle Lettere, realtà editoriale emergente attenta alla cultura della migrazione. Ricorda la Dias che quei massacri non furono il frutto di una immediata, estemporanea follia. Le radici di quest’odio sprofondano nel passato della storia coloniale del Belgio. Nella seconda metà dell’800 i primi coloni belgi effettuarono un censimento della popolazione del Rwanda che grazie all’apporto dell’antropologia razzista, allora crescente baluardo teorico di ogni rispettabile politica coloniale, trasformò una distinzione di tipo sociale ed economico in una netta divisione etnica. Tanto netta da generare una frattura quanto in realtà basata sulla pura osservazione di tratti somatici ed in secondo luogo sul livello di ricchezza. L’impero insegna: divide et impera. Dove c’è una crepa, crea una breccia, una frattura: prendeva corpo il mito della migrazione Camitica, che vuole i tutsi, alti snelli e slanciati come discendenti degli etiopi del Corno d’Africa. I tutsi, minoranza elitaria e interlocutori privilegiati del Regno Belga di Leopoldo II, il tramite fiduciario fra il centro del potere e la periferia del dominio coloniale. Gli hutu la maggioranza silenziosa e asservita.
Si trattava davvero di due etnie distinte? Non è stato mai determinato. Nulla di concreto avvalora lo scientismo della rigorosa aristotelica tendenza dell’Occidente alla categorizzazione compulsiva e finalizzata al controllo. La frattura coloniale si è imposta ad una tradizione fitta di matrimoni misti che non si è mai veramente interrotta e che ha portato, durante il genocidio, all’uccisione di migliaia di hutu moderati e vincolati ai tutsi.
Nella sala sono presenti due donne. Una giovane rwuandese, ebano nel bianco della veste, ricorda i compagni perduti nella selva dei machete. L’altra, una donna anziana, è scampata all’Olocausto e ricorda l’arbitrio della follia che avvicina i due popoli. Una, tutsi, l’altra, ebrea. A vederle non si direbbe: potere della parola. Fabulazione dell’etnicità.

Comments

  1. Daniel

    Solito articolo sul Rwanda infarcito di molti luoghi comuni.
    Mancano quattro anni di guerra civile:gli eccidi commessi nel nord del Rwanda dal FPR dove
    sono? Mancano anche quelli post 94.
    I belgi non hanno fatto altro che fotografare la situazione esistente nel paese: hutu e tutsi e twa
    sono una realtà’ storica del Rwanda: basta chiederlo agli stessi rwandesi coscienti della loro appartenenza etnica e, soprattutto, in grado di riconoscerla nel proprio interlocutore.
    Dopo tutto cio’ tutti auspichiamo una riconciliazione nella verità’.

    • Marco Migliorelli

      Ha ragione. Avrei dovuto scrivere molto più di quanto lei ha letto. Lo stavo facendo domenica ma mi sono chiesto: sto scrivendo un saggio o un articolo? Avrei dovuto raccontare anni di vita civile, parlare dell’FPR, del ruolo dell’ONU che ha abbandonato a se stesso il generale Dallaire, del ruolo ambiguo della Francia di Mitterand culminato nell’operazioni Turquoise (lì a nord per aprire un canale umanitario ma probabilmente per coprire una fornitura di armi allo Hutu Power e creare un perimetro in cui si sono rifugiati anche molti criminali poi andati oltre confine) che è valsa ai due paesi un silenzio diplomatico durato fino al 2004. Avrei dovuto raccontare l’atteggiamento del governo Berlusconi impantanato in una mezza pastoia di auto propaganda. Avrei dovuto approfondire il mito della provenienza Camitica e dedicare un sottoparagrafo alla società rwandese prima e dopo l’arrivo dei Belgi con qualche excursus sui tedeschi prima di loro.
      Ma qual’era la notizia? una commemorazione qui a Roma cui ho presenziato. La commemorazione di un genocidio che con o senza eccidi (che non sto negando) c’è stato. Dovevo scrivere un articolo non raccontare un popolo. Chi avrebbe mai la presunzione di narrare la storia di un popolo in un articolo di giornale?
      Lei che ha letto pletore di articoli infarciti di luoghi comuni come il mio potrebbe -forse è un africanista, io sono solo un comparatista- aggiungere elementi preziosi. C’è una sezione nella quale poter chiedere di collaborare. Io sarei ben lieto di arricchire la mia conoscenza con l’apporto della sua.
      Quanto ai belgi non credo che abbiano semplicemente fotografato una situazione esistente nel paese. Nessuna nazione coloniale si è limitata a farlo e quando l’ha fatto ha agito applicando ad arbitrio le proprie categorizzazioni, il proprio metro. Ciascuna delle nazioni coloniali ha, quando ha potuto, applicato la tattica consueta del divide et impera.
      C’è un bel libretto che ho letto di recente ma che purtroppo è fuori commercio (di questi tempi poi non andrebbe di moda): l’Africa nella coscienza degli italiani, di Del Boca. Ma forse lo ha già letto. Nel qual caso voglia scusarmi ancora.

      • le situazioni non vanno solo fotografate ma risolte. Altrimenti ci si comporta come Pilato