Vite migranti - "In Italia per sfuggire caste e gerarchie sociali" - Diritto di critica
Scritto per noi da Eleonora Melani
“Appartenevamo alla stessa casta, ma lei era più ricca di me. Così, per sposarci, siamo fuggiti in Italia. Il vero buddismo non ammette gerarchie sociali, ma in Sri Lanka i retaggi del sistema castale non sono del tutto scomparsi”.
Brillano gli occhi di Dayaratne Ranawake, sessant’anni appena compiuti, sorriso stampato in volto e una serenità d’altri tempi, mentre racconta la sua storia. Nato in Sri Lanka in una famiglia singalese con scarse risorse economiche, Daya, come lo chiamano gli amici, smette di studiare a 15 anni per fare il cameriere. “In quel periodo ho sofferto molto, – racconta – perché quasi nessuno mi trattava con rispetto. Per questo motivo, a 22 anni, ho deciso di riprendere gli studi, per imparare la lingua inglese e conseguire la laurea in economia”.
“Lavoravo come centralinista Telecom, quando ho conosciuto Mitila. Ci siamo subito piaciuti – prosegue Daya – ma lei era la figlia di un ricco imprenditore e, nonostante appartenessimo alla stessa casta e fossimo entrambi di religione buddista, la sua famiglia non ci avrebbe permesso di frequentarci”. Da qui la decisione di fuggire in Italia, dove viveva già la sorella di Mitila, insieme al marito. “La prima a scappare dall’India è stata mia moglie, mentre io l’ho raggiunta a Roma, 11 mesi dopo. Quando i suoi genitori ci hanno scoperto, hanno fatto di tutto per farla rimpatriare, ma lei si è imposta, dicendo che non avrebbe sposato nessuno, se non me: a quel punto anche loro sono stati costretti ad accettare la nostra decisione”. “E’ stata dura – continua Daya – ma alla fine anche i parenti di mia moglie hanno imparato ad apprezzarmi: l’ultimo è stato mio cognato, che ha ripreso a parlarci solo pochi anni fa”.
Daya e Mitila sono sposati da 28 anni. Hanno due figli: Dimitri, di 25 anni, ingegnere informatico presso l’Alitalia e Dylan,19 anni, che sta ultimando gli studi superiori. Dopo qualche anno di lavoro come domestico e un’esperienza come autista di un’agenzia pubblicitaria, da 17 anni Daya lavora come portiere, presso un palazzo nella zona di Gregorio VII a Roma. Ama il caos della Capitale, che gli ricorda la vitalità della sua terra. E poi, “l’ospitalità dei romani – assicura – assomiglia a quella dei miei connazionali. Non vorrei mai tornare in Sri Lanka, perché ormai mi sono ambientato in Italia: ho molti amici, sia italiani, che provenienti dalla mia terra”. E lo conferma anche il suo profilo su facebook, con oltre 600 amici. “Sogno un giorno di scrivere un’autobiografia, perché, guardando al mio passato, mi rendo conto di aver vissuto una bella vita”.
In Sri Lanka esistono ancora sistemi castali, “soprattutto nelle città di campagna e tra le persone più anziane”, spiega Daya. “Certo, dall’indipendenza indiana ad oggi, le cose sono cambiate e lo stesso governo ha contribuito a promuovere idee di uguaglianza sociale”. Ormai, “non ha più senso parlare di caste nei termini cari all’antica comunità singalese, cioè intese come impossibilità di passaggio da una posizione all’altra e come incomunicabilità tra gruppi differenti. Diversità di trattamento permangono però – continua Daya- in alcuni rapporti sociali formali: non a caso, nell’arredamento di molte case rurali, non manca il kolamba, uno sgabello più basso, destinato a chi appartiene a una casta inferiore”. Inoltre, anche se le nozze miste sono più diffuse di un tempo, “è ancora abitudine sposarsi con i membri della propria casta, o almeno con persone che vantano condizioni economiche simili alla propria”.
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