Goffredo Mameli, simbolo del patriottismo italiano - Diritto di critica
«Una cosa stupenda! Io sentii dentro di me qualcosa di straordinario, che non saprei definire». Con queste parole Michele Novaro, autore della musica del Canto degli Italiani, conosciuto ai più come Inno d’Italia, ricorda nel 1875 l’emozione che provò nel leggere il testo di Goffredo Mameli. Era il 1847, e il musicista si mise subito al lavoro: «Piangevo, ero agitato, e non potevo star fermo. Corsi a casa, e là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Scrissi un motivo su un foglio di carta: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio. Fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia».
Goffredo Mameli compone i versi simbolo della nostra Nazione a soli 20 anni, due anni prima di morire a Roma durante la difesa della Repubblica nata dai moti popolari. La sua breve vita è stata piena di ardore, irrequietezza, passione. E stupisce sempre la perfezione dell’Inno, il suo contenere la storia italiana in poche strofe, strofe semplici e assai musicali. Scritte di getto, nell’ardore dell’età giovanile.
Patriota instancabile, ha partecipato ai moti di Genova, alle cinque giornate di Milano (con il grado di capitano), e soprattutto alla rivolta di Roma nel 1849, al fianco di Giuseppe Garibaldi. Mameli ha svolto anche il ruolo di portavoce dei ribelli genovesi e ha diretto il giornale “Diario del popolo”, promuovendo una campagna stampa per la ripresa della guerra contro l’Austria, alla fine del 1848.
La popolazione stava resistendo contro l’assalto delle truppe francesi, alleate del Papa, e gli scontri tra l’esercito transalpino e i rivoluzionari italiani erano durissimi. Goffredo, aiutante di campo di Garibaldi, venne ferito ad una gamba da un colpo di baionetta sparato per errore da un suo compagno di lotta. La ferita si infettò, e Mameli morì dopo ore di agonia. La leggenda dice che nei suoi ultimi istanti di vita, nel delirio, recitasse versi patriottici.
La notizia del suo decesso colpì Giuseppe Garibaldi. L’Eroe scrisse anni dopo nelle sue memorie: «…La sua perdita mi ha straziato, e mi strazia ancora, pensando alle glorie perdute dell’infelice mio Paese. Italia mia! Non l’Italia delle turpitudini e del lucro, quella del tanto per cento! Quella curvata sotto il bastone dell’Ibero, del Gallo, del Croato! Non quella della pancia e della prostituzione, ma! Italia ideale, sublime! Quella concepita da Dante, da Petrarca, da Machiavelli, quella per cui morivano i Bandiera e i Cosenzo e migliaia di giovani, esaltandola moribondi…acclamandola mutilati..sotto le mura della madre delle metropoli, di Roma! Ebbene quell’Italia del mio cuore aveva trovato il suo bardo..Mameli! Mameli!».
Parole attualissime e piene di idealismo. Quando cantiamo l’inno, ricordiamoci anche di tutto quello che c’è dietro.
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