L'Egitto scopre il prezzo della libertà - Diritto di critica
Scritto per noi da Gianluca Mercuri
Grande entusiasmo e voglia di rinnovamento. Sono questi gli elementi portati dai movimenti popolari che hanno recentemente permesso al popolo egiziano di liberarsi della lunga egemonia di Hosni Mubarak, alla guida del Paese dal 1981. Ora, però, questa grande sete di libertà sta trovando, a più di un mese dalla cacciata del Rais, le prime fisiologiche difficoltà, dettate dalla mancanza di una reale tradizione democratica e dalla frammentazione di alcuni settori della società, in primis causata dalla secolare divisione tra musulmani e copti, i cristiani d’Egitto che rappresentano circa il 10% della popolazione, concentrati soprattutto al Cairo e ad Alessandria.
Prima della rivoluzione. Non bisogna dimenticare che prima dello scoppio della rivoluzione, in occasione del Natale copto, proprio ad Alessandria si erano verificati violentissimi scontri religiosi. A questo susseguirsi di eventi, si deve considerare un altro elemento pre-rivoluzionario, sul quale porre l’attenzione: l’ormai celebre discorso tenuto dal Presidente Obama proprio al Cairo. Il presidente Usa si soffermò a lungo sui rapporti tra Occidente ed Islam, auspicando un avvicinamento progressivo che, alla luce degli eventi di inzio anno, sembra aver trovato una possibile strada nel processo di democratizzazione del NordAfrica, e proprio in quell’Egitto che da molto tempo è riconosciuto dalla comunità internazionale come partner commerciale e diplomatico affidabile.
La situazione attuale. Ma la situazione interna dell’Egitto è, dopo l’iniziale entusiasmo, progressivamente scivolata verso il caos, alla ricerca di un nuovo assetto democratico. Nel Paese iniziano a giocare un ruolo politico importante i Fratelli Musulmani, rappresentanti della maggioranza dei cittadini egiziani. L’organizzazione, prettamente religiosa, già operava in Egitto con il beneplacito di Mubarak, a condizione che non svolgessero attività politica. Con la caduta di Mubarak, i Fratelli Musulmani hanno trovato terreno fertile per espandere la loro attività e proporsi al popolo come forza politica in grado di guidare il Paese nella transizione verso la democrazia.
Durante la rivolta si era candidato come leader dell’opposizione Mohamed El Baradei, Nobel per la Pce nel 2005, già responsabile dell’Aiea (l’agenzia atomica che si occupò, tra le altre vicende, della questione delle armi irachene e del nucleare iraniano), uomo spinto dall’Occidente ma non apprezzato dal popolo egiziano, che lo incolpava di essere tornato in patria a giochi fatti. Il peso della sua candidatura con il passare del tempo sembra essersi affievolito, in un contesto di crescente instabilità, legato a diversi fattori.
La società spaccata. La principale preoccupazione legata all’attuale situazione egiziana sta proprio nell’aumento dei segnali di precarietà all’interno della società: il popolo egiziano non ha gradito l’atteggiamento della polizia, durante e dopo la rivoluzione, in quanto schierata a fianco di Mubarak per diversi giorni, prima di praticare una sorta di neutralità nello scontro tra rivoltosi e regime. Secondo l’Economist, l’attività della polizia egiziana in seguito alla caduta del regime è stata equivoca: il rilascio di numerosi prigionieri dalle carceri, la distruzione di moltissimi documenti riguardanti Mubarak, e pestaggi nei confronti della minoranza copta hanno creato un forte malcontento tra il popolo e la polizia stessa. Questo è ovviamente un elemento di forte destabilizzazione. Infatti, tra la popolazione circolano voci secondo le quali dietro queste iniziative della polizia ci sarebbe un estremo tentativo, da parte dei nostalgici di Mubarak, di creare una cortina di fumo e instabilità atta a rallentare, se non interrompere, il processo di democratizzazione che sembra in ogni caso avviato.
Nuovi scontri tra copti e mussulmani. Persino nella minoranza copta, che sfilò in Piazza Tahrir insieme ai musulmani uniti dal simbolo di una mezzaluna con una croce, le reali preoccupazioni sembrano essere legate a questi tentativi di restaurazione. Nei primi giorni di marzo si sono infatti riaccesi gli scontri tra musulmani e copti, e il governo provvisorio, guidato dai militari, ha dovuto rafforzare il coprifuoco in diversi quartieri della capitale. Ma proprio dai copti nasce il sospetto che in realtà queste operazioni violente siano partorite da chi ha l’interesse a creare instabilità, proprio perché la grande prova di forza di Piazza Tahrir, in cui cristiani e musulmani hanno marciato uniti per la libertà e la democrazia, ha rappresentato la volontà di stringersi attorno al valore di una Patria unita, nella quale le divisioni religiose siano confinate ai margini.
E questa voglia di unità, di determinazione nella costruzione di una società più coesa, è pienamente incarnata dall’atteggiamento dell’esercito, che nella migliore tradizione araba viene visto come fedele rappresentante della volontà del popolo. Il suo intervento deciso, atto a screditare il Rais e a far crollare qualsiasi appoggio al precedente regime, è stato molto apprezzato dalla folla.
L’Egitto e il mondo. L’Egitto rappresenta per molti paesi europei, e per gli Usa, un partner commerciale importante. I traffici tra il Vecchio Continente e l’Egitto sono rilevanti, in termini economici e turistici, mentre i rapporti diplomatici che fanno dell’Egitto l’interlocutore privilegiato nell’area, rappresentano ottimi motivi per augurare all’Egitto di riuscire nell’intento di darsi una democratica visione della società e della politica.
Prospettive per il futuro. Soltanto in seguito alle elezioni presidenziali del prossimo settembre sapremo se il popolo egiziano avrà davvero vinto la sua sfida: fino ad allora, è presumibile pensare che i tentativi di destabilizzazione continueranno. Sta alla freddezza dei generali dell’esercito e alla volontà del popolo di Piazza Tahrir dimostrare con i fatti che questa rivoluzione non farà dell’Egitto un nuovo Iran.
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