Dopo la rivoluzione: “In Tunisia il nuovo premier sta dalla parte dei giovani” - Diritto di critica
“Il nuovo primo ministro Beji Caid Sebsi è la persona su cui la Tunisia può avere fiducia per risorgere. Ha dimostrato di voler tagliare tutti i rapporti con il vecchio regime, tendendo conto delle richieste dei manifestanti”. Mohamed, 30 anni, tunisino di Cartagine, racconta a Diritto di Critica la fase della post-rivoluzione, dalle dimissioni di Ghannouchi, volute soprattutto dai giovani (“non è stato in grado di garantire una reale democrazia e una comunicazione fondata sull’onestà e la trasparenza”), agli sbarchi di migliaia di tunisini a Lampedusa, “gira voce che Gheddafi stia alimentando il flusso di irregolari verso l’Europa, per scoraggiare eventuali azioni violente contro di lui”.
Nei giorni scorsi ci sono state le dimissioni del primo ministro Ghannouchi: perché il popolo non ha visto in lui una figura in grado di rappresentarlo?
I giovani, quelli che hanno preso parte al sit-in in piazza Kasbah per più di una settimana, hanno avuto un ruolo fondamentale: non potevano chiudere un occhio sul fatto che l’ex primo ministro fosse un simbolo del vecchio regime di Ben Ali. Il governo di Ghannouchi non è stato in grado di garantire una reale democrazia e una strategia di comunicazione fondata sulla trasparenza. Prima di dimettersi, ha confessato di essere stato sotto pressione e aver subito delle minacce: secondo i media, soprattutto da parte di alcuni membri dell’ex governo. Il popolo si è sentito frustrato per la lentezza del cambiamento, nonostante l’impegno del governo ad interim di garantire le elezioni entro il 15 luglio di quest’anno.
Come è stata vista la nomina del nuovo primo ministro Beji Caid Sebsi?
Caid Sebsi ha dimostrato serietà nel voler attuare cambiamenti di rilievo e nel voler tagliare tutti i rapporti con il regime precedente; ha permesso la sospensione della Costituzione del 1959 e del funzionamento di Camera e Senato, fino alla nuova Costituzione. Tali decisioni hanno portato all’evacuazione di Piazza Kasbah: i manifestanti hanno infatti ottenuto quello che volevano. In rete, la maggior parte degli attivisti ha deciso di concedere al nuovo primo ministro la possibilità di dimostrare che lui è l’uomo su cui la Tunisia può aver fiducia per risorgere.
Come è il rapporto dei giovani tunisini con la politica?
La protesta a Piazza Kasbah ha avuto un significato non solo politico. Alcuni dei manifestanti hanno aderito ai partiti di opposizione, ma la maggior parte di coloro che sono scesi in piazza erano studenti, avvocati, una miscela magica di strutture sociali e politiche. Da tunisino, non sono mai stato interessato alla politica come oggi, dopo 23 anni di repressione: anche chi non capisce nulla di politica, ne è diventato esperto dopo la rivoluzione. La voce del popolo è ora rappresentata dal Consiglio per la protezione della Rivoluzione: non si tratta di un partito o di un uomo politico particolare, ma piuttosto di una comunità socio-politica, che lavora insieme per garantire il percorso legittimo della rivoluzione.
La politica tunisina è pronta per una vera democrazia e libertà?
Finora non c’è stata la fiducia tra governo e popolo necessaria per compiere questo passaggio. Inoltre, ci sono una serie di problemi, che costituiscono una sfida per i governi: in cima alla lista, la disoccupazione e la mancanza di sviluppo in alcune regioni del paese, soprattutto nella parte occidentale e meridionale. L’economia rischia di crollare, se non vengono prese decisioni urgenti: occorre soprattutto investire e incoraggiare la stagione turistica. Dopo la grande vittoria sulla tirannia, il popolo tunisino non può tornare indietro, ma occorre tempo: i tunisini hanno vissuto sotto la dittatura per anni ed è evidente che non sono ancora pronti per la democrazia. D’altra parte, questa rivoluzione è stata pacifica e organizzata e mostra che questa nazione sta andando nella giusta direzione.
Pensi che la rivoluzione abbia migliorato la situazione in Tunisia?
Nonostante tutte le frustrazioni, la fase post-rivoluzione ha aperto una nuova epoca: sono contento che i miei figli in futuro avranno la possibilità di studiare questa rivoluzione sui libri di storia. Rimpiangere il passato significherebbe avere nostalgia per le regole della dittatura. Oggi in Tunisia è tornata la normalità e la gente guarda avanti, con fiducia e preoccupazione allo stesso tempo.
Qual è stato il ruolo dei media tunisini, durante il periodo di transizione?
I media tunisini, soprattutto quelli audiovisivi, sono stati molto criticati dai manifestanti: alcuni canali, come quello pubblico tunisino sono stati visti come una macchina del vecchio regime. D’altra parte il canale privato Nessma tv, di proprietà di Ben Ammar Tarek e Berlusconi, si è rivelato uno dei canali locali migliori, perché realmente ha mostrato cosa è accaduto.
Come giudichi il modo in cui i media internazionali hanno raccontato la situazione della Tunisia, soprattutto in riferimento agli sbarchi a Lampedusa?
Al-Jazeera è il migliore di tutti i network internazionali: ha fornito notizie da tutto il mondo arabo e da quello occidentale con il suo canale internazionale in inglese; ha svolto un ruolo fondamentale nella copertura dei fatti di Tunisia, Egitto, Yemen e ora Libia. Per quanto riguarda gli sbarchi, la maggior parte dei canali hanno trattato la questione ma non è stato ancora dimostrato cosa sia realmente successo prima di arrivare a Lampedusa: come è iniziato tutto? Chi c’era dietro la migrazione di massa? Qui gira voce che Gheddafi stia alimentando questo flusso di immigrati clandestini verso l’Europa (anche se nessuno può confermarlo), per cercare di scoraggiare eventuali azioni violente contro di lui. Realtà o finzione? Devo dire che la gioventù tunisina ha sofferto molto nel corso dei 23 anni di regime di Ben Ali e ciò li ha spinti a vedere l’Europa, e soprattutto l’Italia, come la “terra promessa”. La rivoluzione procede lentamente e molti giovani non hanno la pazienza di attendere il momento in cui saranno soddisfatti del loro paese; hanno sempre un occhio verso i loro parenti emigrati in Italia che sembrano condurre una vita di successo. Altri giovani, invece, preferiscono restare in Tunisia e lavorare qui, piuttosto che rischiare la vita.
In che modo l’arrivo di migliaia di rifugiati dalla Libia ha aggravato la situazione in Tunisia?
E’ la prima volta nella sua storia moderna che la Tunisia deve gestire un tale flusso di rifugiati. L’emergenza ha aggravato l’instabilità del paese e ha reso difficile garantire cure per tutti. A Ras Jdir, la principale stazione di confine, la situazione ora è sotto controllo: l’esercito tunisino e il resto della popolazione hanno fatto di tutto per aiutare i profughi, fornendo cibo e coperte; poi sono arrivate le organizzazioni umanitarie internazionali che hanno garantito un’ulteriore assistenza sanitaria. Un mio amico è tornato poche ore fa da lì, e mi ha detto che ci sono rifugiati provenienti da Egitto, Bangladesh, Vietnam, Cambogia , Pakistan, India, Ghana, Camerun, Niger, Nigeria, Libia (che vogliono tornare in Libia) e Mali. Il rimpatrio di alcuni dei rifugiati (soprattutto quelli egiziani) ha permesso ai paesi europei di garantire sufficiente assistenza sanitaria e cibo. Le organizzazioni di tutto il mondo sono state sul posto: World Food Program, l’Unhcr, la Croce Rossa.
Parliamo delle rivoluzioni in Egitto e in Libia: vedi analogie o differenze con la Tunisia?
Il caso della Libia è sicuramente molto diverso da quelli di Tunisia ed Egitto. La Libia è governata non solo da un dittatore ma da uno squilibrato che ha fatto uccidere la sua gente nel modo più orribile. Di fronte a questa crudeltà c’è stata una forte volontà di porre fine a un vero e proprio genocidio: questo rende la resistenza libica più grande e complessa rispetto alle altre. La rivoluzione egiziana, invece, è stata molto influenzata da quella tunisina: i gruppi sui social network facebook e twitter di entrambi i paesi si sono scambiati varie raccomandazioni su come proseguire il loro cammino verso il raggiungimento degli obiettivi. Gli egiziani hanno approfittato dell’esperienza tunisina per costruire la loro rivoluzione.
Pensi che ci saranno altre rivoluzioni negli altri paesi del Maghreb?
Direi che la febbre dello Yemen è allarmante: l’instabilità non finirà fino a quando il presidente non si dimetterà. Per quanto riguarda l’Algeria, non credo che gli algerini farebbero una rivoluzione: i problemi sociali sono troppi e il Paese porta con sé ancora i terribili ricordi del 1990. In Marocco, invece, la situazione potrebbe svilupparsi anche se nessuno può prevedere cosa accadrà. D’altronde, nessuno in Tunisia poteva immaginare quanto poi si è verificato e lo stesso vale per la Libia: avevamo ipotizzato che dopo la Tunisia sarebbe toccato allo Yemen e siamo rimasti sorpresi per la rivolta contro Gheddafi.
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