Il destino sospeso dell'informatore americano di Wikileaks - Diritto di critica
Sorvegliato a vista ogni cinque minuti, isolato 23 ore su 24, ammanettato durante le visite e sottoposto al regime di “prevenzione lesioni” che lo costringe a dormire su un letto di metallo, senza materasso, lenzuola né niente con cui possa ferirsi o tentare il suicidio: queste le condizioni detentive di Bradley Manning, il soldato americano accusato di aver passato a Wikileaks informazioni riservate, denunciate a gennaio da diverse associazioni per i diritti umani come Amnesty International perché ritenute eccessivamente dure.
Manning, analista militare di 23 anni, è stato arrestato nel maggio 2010 con l’accusa di trasferimento di informazioni riservate e diffusione di informazioni sulla difesa nazionale ad una fonte non autorizzata. Il Pentagono ha ora aggiunto 22 nuove imputazioni, tra cui l’utilizzo illegale di software governativi per scaricare informazioni riservate e il loro passaggio ad una fonte considerata ‘nemica’. Le accuse, formulate a seguito di 7 mesi di indagini, fanno riferimento ai più di 250.000 cables confidenziali del Dipartimento di Stato Americano e a diversi registri di guerra da Afghanistan e Iraq trasferiti e pubblicati sul sito di Wikileaks. Particolarmente spinosa risulta soprattutto la diffusione di un video militare che mostra un attacco da parte di elicotteri Apache americani contro uomini disarmati in Iraq, nel 2007: attacco che costò la vita anche a due operatori della Reuters. Il rilascio dei cables a Wikileaks, ha fatto sapere il Dipartimento di Stato, metterebbe a rischio molte vite rivelando l’identità di persone che lavorano segretamente con gli Usa e potrebbe compromettere le relazioni degli Stati Uniti con gli alleati, a seguito di commenti o descrizioni imbarazzanti rivelati a proposito di leader stranieri.
In particolare l’accusa di aiuto al nemico, in riferimento ai dispacci relativi a Afghanistan e Iraq, se confermata potrebbe valere come una condanna a morte: si tratta infatti di un crimine considerato dal Codice Uniforme di Giustizia Militare un reato capitale, ma gli accusatori dell’esercito hanno resa nota alla difesa di Bradley Manning la volontà di evitare una simile soluzione. Non si tratta comunque di una certezza: sebbene insolito, sono già stati registrati casi in cui la volontà degli accusatori non sia stata tenuta in considerazione nel corso del processo.
Manning – ad oggi l’unico imputato – sarà giudicato da una corte militare composta da almeno 12 membri: qualora risultasse colpevole e riuscisse tuttavia ad evitare la pena capitale, dovrebbe comunque affrontare molto probabilmente l’ergastolo. In attesa del processo, è detenuto nel carcere di Quantico, in Virginia. «Le condizioni al quale è sottoposto – spiega Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International – sono eccessivamente dure e chiediamo che vengano rimosse». Gli accertamenti psichiatrici hanno infatti stabilito l’inutilità di una reclusione così pesante. All’inizio Manning era stato anche posto in status di ‘rischio di suicidio’: status revocato dopo due giorni a seguito delle proteste dello stesso Manning e dei suoi avvocati. «Questo trattamento – continua Noury – contravviene al principio di innocenza: Manning infatti non è ancora stato condannato per alcun crimine. Le condizioni a cui è inutilmente sottoposto in carcere sono disumane e potrebbero influire sul processo». Già a gennaio era stata notificata questa possibilità da parte di Susan Lee, direttrice del settore Americhe di Amnesty International, che aveva sottolineato come «le condizioni repressive imposte a Manning violano gli obblighi degli Usa di trattare i detenuti con umanità e dignità. Inoltre, temiamo che l’isolamento prolungato, che come è stato provato produce danni psicologici, possa pregiudicare la capacità di Manning di difendersi». Anche i sostenitori del soldato si sono mobilitati: il gruppo “Courage to resist”, con base ad Oakland in California, sta infatti raccogliendo fondi per la sua difesa.
Ma il vero problema, secondo Amnesty International, è lo scontro tra riservatezza e diritto alla libertà di informazione: «al di là della quantità di cables effettivamente trasmesse da Bradley Manning, – spiega Noury – in casi come questo dovrebbe prevalere la libertà di informazione che aiuterebbe ad accertare situazioni di violazione dei diritti umani, com’è accaduto in Iraq. Sarebbe opportuno che questo punto fondamentale fosse sollevato al processo».
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