Ciudad Juarez, viaggio nella "città della morte" - Diritto di critica
Ciudad Juarez è una città di confine, a cavallo tra il Messico e gli Stati Uniti. Un luogo di demarcazione e passaggio, frontiera della violenza più sanguinaria. La chiamano “la città della morte”. Muri perforati da pallottole e zone segnate da regolamenti di conti, questi i suoi “monumenti” più celebri. 34600 i morti da dicembre 2006, 3000 le vittime nel 2010: sono i grandi numeri che le hanno regalato il primato di città più pericolosa del mondo, davanti a Caracas e New Orleans.
Una tradizione di orrore e morte che affonda le sue radici nel lontano 1993, quando la città messicana inaugurò una lunga serie di omicidi ai danni di giovani donne e bambine. Le vittime, più di 500 da allora, di età media compresa tra i 10 e i 40 anni, possedevano tutte le stesse caratteristiche fisiche: corporatura minuta, capelli lunghi e scuri. Rapite lungo la strada venivano stuprate, torturate e uccise. I corpi rinvenuti portavano i sigilli dell’efferata violenza: morsi ai seni, segni di strangolamento, crani fracassati, arti mutilati. La mattanza è proseguita fino ad oggi: 29 sono le donne uccise nel solo mese di gennaio 2011. Il 7% in più rispetto ad un anno fa. Nel 2001 è nata l’associazione “Nuestras Hijas de Regreso a Casa”: le fondatrici si battono contro il femminicidio a Ciudad Juarez, nonostante i continui tentativi di intimidazione. “Hanno cosparso di benzina la mia casa e si è bruciata una parte del tetto. Avevo ricevuto già delle minacce di morte, rivolte anche contro mio figlio, per questo al momento dell’incendio la casa era vuota” ha dichiarato García Andrade, presidente dell’organizzazione, vittima di un attentato lo scorso 17 febbraio. Stessa sorte riservata pochi giorni prima all’abitazione di Sara Salazar, madre di un’attivista dei diritti umani sequestrata, torturata e uccisa.
Poi c’è il narcotraffico. Tra il 21 e il 23 febbraio scorsi sono stati commessi 40 omicidi. Secondo la Corte Federale Messicana le uccisioni porterebbero la firma della criminalità organizzata: una guerra aperta tra i narcotrafficanti che negli ultimi mesi ha contribuito alla fuga di migliaia di persone e alla chiusura del 70% dei negozi della città. Il presidente messicano Felipe Calderon, insediatosi nel dicembre 2006, ha promosso una campagna permanente contro i cartelli della droga, mobilitando 50 mila soldati e migliaia di poliziotti federali. I morti negli scontri dovuti al narcotraffico restano generalmente vittime di un regolamento di conti o di conflitti con le forze armate.
Ciudad Juarez la città della morte. Ciudad Juarez la città che uccide le donne. Nella spirale del terrore perenne si insinua il fenomeno perverso dell’attrattiva turistica: luoghi di massacro che diventano mete privilegiate per viaggiatori in cerca di emozioni forti e pericoli estremi. Lo chiamano “narcoturismo” ed è una pratica diffusa a Ciudad Juraz, come nel resto del Messico. Giovani statunitensi e europei sui 35 anni, con un elevato potere di acquisto: sono loro gli antesignani del fenomeno. “Questo particolare tipo di turismo deriva in parte dalla diffusione della cosiddetta “narco–cultura”, una specie di trend in base al quale i boss dei cartelli della droga vengono presentati come stereotipi di grande ricchezza” a spiegarlo è Alejandro Desfassiaux, presidente del “Grupo Multisistemas de Seguridad Industrial (Gmsi)”, una società che si occupa di sicurezza e business e che ha effettuato un primo studio sul narcoturismo, individuandone le peculiarità.
Sulle rive del Rio Grande, di rimpetto alla città texana di El Paso, il dramma del male ha un nutrito gruppo di spettatori. Un’attenzione morbosa capace di alimentare vicende di violenza, che sanno di leggenda, ma sono realtà. E se la storia della “città della morte” continua ad ispirare autori e registi, a Ciudad Juarez il finale non è ancora stato scritto: là, nella terra di confine, si continua a morire ogni giorno, con la sola colpa di essere nati uomini o donne. Con la sola colpa di essere nati lì.
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