Egitto, i colpi di coda del regime di Mubarak - Diritto di critica
- Erica Balduzzi+
- 25 Febbraio 2011 Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
Non tutto rose e fiori nell’Egitto del post Mubarak. Mentre per le strade si cerca di tornare alla normalità e nei palazzi istituzionali si lavora per modificare in tempi brevi la Costituzione sull’onda delle proteste, proseguono anche gli episodi di violenza, colpi di coda di un regime andato ormai allo sfascio.
Il dito è puntato soprattutto contro il carcere di al-Qatta el-Gadeed, nei pressi del Cairo, dove sarebbero stati uccisi almeno 43 prigionieri, mentre altri 81 sarebbero rimasti feriti nel corso di una rivolta interna scoppiata il 29 gennaio scorso. I detenuti avevano infatti chiesto di essere liberati, come era successo in altre carceri del Paese rimaste senza controllo nel corso delle proteste e dalle quali erano evasi migliaia di prigionieri: alla richiesta dei detenuti di al-Qatta el-Gadeed sono invece seguiti il rifiuto della direzione del carcere e l’abbandono da parte del personale civile, che ha così lasciato la struttura nelle mani della guardia penitenziaria, artefice delle uccisioni sistematiche dei prigionieri. Le ultime sarebbero avvenute l’11 e il 12 febbraio. Tra i morti ci sarebbe anche un parente di un prigioniero in visita al carcere ed un agente della sicurezza. I cadaveri di alcuni detenuti di al-Qatta el-Gadeed – molti dei quali presentavano fori di proiettili su fronte, nuca e petto – sono stati poi identificati dai parenti all’obitorio di Zenhom, al Cairo, tra 115 corpi provenienti anche da altre prigioni del Paese.
A focalizzare l’attenzione sulla vicenda è Amnesty International, che sottolinea come la situazione non sia migliore per i prigionieri ancora vivi e tuttora detenuti nel carcere incriminato: i feriti della rivolta vengono curati nelle celle dagli stessi compagni, sono esaurite le scorte di medicinali di prima necessità e mancano acqua, cibo e le più elementari norme igieniche. «Il carcere di al-Qatta al-Gadeed è rimasto completamente in mano alla polizia fedele a Mubarak – spiega il portavoce italiano di Amnesty, Riccardo Noury, a Diritto di Critica – e le guardie hanno iniziato ad uccidere i prigionieri probabilmente per rappresaglia e disperazione: la rivoluzione ha rappresentato infatti la fine del loro potere». L’organizzazione per i diritti umani chiede ora l’apertura di un‘indagine indipendente su questa situazione: «le autorità egiziane devono porre immediatamente fine all’uso della forza contro i prigionieri, consentire cure mediche immediate a chi ne ha bisogno e aprire un’indagine indipendente su quanto accaduto nel carcere di al-Qatta el-Gadeed, che stabilisca in quali circostanze è stato fatto ricorso alla forza letale», ha dichiarato a tal proposito Malcolm Smart, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
La situazione resta drammatica anche su altri fronti: sono state infatti ricevute informazioni secondo le quali le forze di sicurezza egiziane ad Alessandria avrebbero minacciato i familiari di alcuni manifestanti rimasti uccisi nel corso delle rivolte, al fine di impedire loro di chiedere giustizia: «un atteggiamento rituale durante la presidenza di Hosni Mubarak», si legge in un comunicato di Amnesty International. Il caso è quello dei genitori di Mohamed Mostafa Abdou El Sayed, studente ucciso il 28 gennaio, che si sono visti offrire del denaro da un agente di polizia accompagnato da un gruppo di malviventi perché ritirassero la denuncia per la morte del figlio: un modello di comportamento molto diffuso durante l’era Mubarak e duro a morire. Nella città di Alessandria le proteste avevano raggiunto il culmine alla fine di gennaio e secondo le verifiche messe in atto da Amnesty la polizia aveva fatto ricorso ad un’eccessiva forza anche nei confronti di manifestanti pacifici, provocando così almeno 80 morti, più di quante accertate dalle fonti ospedaliere e di medicina legale. A queste vittime si aggiungono quelle del Cairo, di Suez e delle altre città egiziane: molti parenti cercano giustizia, ma nello stato di confusione attuale ci sono ancora a briglia sciolta molti esponenti del vecchio regime. «Non bastano pochi giorni di rivolta a cambiare abitudini radicate per anni. – continua Noury – La tortura e l’intimidazione sono state usate impunemente durante tutto il regime di Mubarak e sono usate ancora, lontane dagli occhi delle telecamere. Episodi simili avvenivano anche durante i giorni della contestazione: non c’era sempre unità d’intenti e armonia tra i soldati ed i manifestanti e lontano da piazza Tahrir, diventata la vetrina della rivolta, sono stati registrati casi di violenza, saccheggio, tortura: ad esempio nelle carceri, nei vicoli, nelle periferie». Ciò che manca, secondo Amnesty International, è un messaggio chiaro di discontinuità con il passato da parte delle autorità militari che ora tengono le redini del potere: ad esempio, non è ancora stata rilasciata ancora una comunicazione ufficiale da parte dell’esercito che revochi lo stato di emergenza, tuttora in vigore nel Paese.
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