Crac Parmalat: “Nessun pericolo di fuga”. E Tanzi resta ai domiciliari - Diritto di critica
“Si può ipotizzare che la Corte di Cassazione abbia ritenuto che non sussista il pericolo di fuga per Calisto Tanzi e quindi abbia rimandato la decisione sull’arresto al Tribunale del Riesame di Milano”. A ipotizzare le motivazioni della suprema corte ci ha pensato l’avvocato Giampiero Biancolella, legale dell’ex patron della Parmalat. La sentenza della Cassazione ricalca il verdetto della Corte d’Appello di Milano, che aveva rigettato la richiesta di arresto, ritenendo che non potesse essere considerato un indizio di pericolo di fuga il viaggio che Tanzi fece a Quito, capitale dell’Ecuador, nel dicembre del 2003. Circostanza che poi portò all’arresto in Italia dell’ex imprenditore di Collecchio. Il verdetto della suprema corte ha ribaltato la decisione del Tribunale della Libertà di Milano del 27 settembre del 2010.
Tra un mese circa sono attese le motivazioni della suprema corte, ma intanto l’ex patron della Parmalat ha accolto con sollievo il rinvio al Tribunale del Riesame. “Tanzi – ha detto il difensore – ha appreso la notizia mentre era in casa con la moglie. Penso che sia stata versata anche qualche piccola lacrima. C’era molta preoccupazione, date le sue condizioni di salute, per una eventuale detenzione”.
E’ difficile riannodare le fila di uno dei più grandi scandali di bancarotta fraudolenta ed aggiotaggio perpetrato da una società privata in Europa ai danni soprattutto dei risparmiatori. Fu scoperto solo verso la fine del 2003, nonostante le difficoltà finanziarie (circostanza rilevata in seguito) fossero presenti già agli inizi degli anni ’90.
Cominciamo dagli anni’60 e precisamente dal 1961 quando Calisto Tanzi, imprenditore di Collecchio, fondò la Parmalat, azienda agroalimentare che è poi diventata una multinazionale. Quando Tanzi fu arrestato il 26 dicembre del 2003 a Milano in molti stentarono a crederci. Ma di lì a poco gli inquirenti avrebbero disvelato il castello di carta costruito dal patron della Parmalat e dai suoi collaboratori. Una realtà imprenditoriale diffusa in tutto il mondo con il suo latte, il suo yogurt, i succhi di frutta ed i prodotti da forno, e dimostratasi nei fatti un prodotto della ‘finanza creativa’, caratterizzata da bilanci falsificati, carte taroccate e connivenze con i soggetti che avrebbero dovuto controllare l’esposizione finanziaria dell’azienda parmigiana.
Al momento dell’arresto di Tanzi i debiti si aggiravano intorno ai 14 miliardi di euro, ma già dalla fine degli anni ’80 l’esposizione finanziaria ammontava ad un centinaio di miliardi delle vecchie lire. A quel punto il patron della Parmalat decise di quotare la società in borsa.
Diventare una società per azioni comportò il risanamento dei conti e per questo Tanzi fu costretto a rivolgersi alle banche per un prestito. L’Icle, un istituto di credito, sborsò 120 miliardi delle vecchie lire. Senza debiti di una certa entità, la Parmalat potè entrare in borsa senza particolari controlli da parte della Consob.
Negli anni ’90 la situazione finanziaria non migliorò e per i debiti contratti la società sarebbe potuta fallire da un momento all’altro. Per occultare il buco miliardario Tanzi affidò per anni all’avvocato Gian Paolo Zini il compito di creare una rete di società offshore tra i Caraibi, il Delaware e le isole Cayman. L’avvocato Zini operava direttamente da New York ed aveva creato, insieme all’ex direttore finanziario Fausto Tonna, il fondo ‘Epicurum’ attraverso cui la Parmalat riversava un’ingente quantità di denaro, circa 400 milioni di euro, sulla ‘Parmatour’. Questo denaro veniva registrato sotto la voce crediti per la società. L’operazione era falsa, ma utile per ingannare il mercato ed i risparmiatori. Allo stesso modo, per simulare l’ottima salute economica della società, si emettevano fatture false. Per incassare i crediti fu creato un conto corrente fittizio presso la ‘Bank of America’, intestato alla società ‘Bonlat’ con sede alle Cayman, in cui figuravano 3,9 miliardi di euro. Le banche continuarono ad erogare prestiti al gruppo. Quando il buco fu scoperto nel 2003, gli istituto di credito si professarono vittime della frode della Parmalat. Fu lo stesso governatore della Banca d’Italia di allora, Antonio Fazio, nel 2004 ad affermare che sia le banche italiane che quelle straniere non erano a conoscenza della situazione debitoria dell’azienda di Tanzi.
Già nel 1995 uno studio sui bilanci degli ultimi tre anni aveva rivelato come la Parmalat vivesse di continui prestiti da parte delle banche. L’attuale amministratore delegato dell’azienda parmigiana Enrico Bondi ha deciso di intraprendere un’azione legale contro le banche creditrici prima del crac, accusandole di aver emesso bond (titoli di credito emessi dalle banche che conferiscono al soggetto, che ha comprato l’obbligazione, il diritto di essere rimborsato della cifra versata più gli interessi) fino all’ultimo momento, pur essendo consapevoli della situazione disastrosa in cui versavano i bilanci della Parmalat.
A cominciare dalla Deutsche Bank (prestiti per 140 milioni di euro con interessi del 140%), Unicredit (prestiti da 171 milioni con interessi del 124%), passando per Capitalia (che incassò il 123%, più di quanto prestò all’azienda parmigiana) e per la banca svizzera Ubs. Le cifre che le banche prestavano alla Parmalat servivano per dare la parvenza di una società solida ed in crescita. I finanziamenti erogati venivano occultati grazie a società site in paradisi fiscali.
Nel 2003 la Consob avviò i controlli ai bilanci della Parmalat. Ben presto le banche cominciarono a fare pressioni affinché l’azienda di Collecchio restituisse i prestiti, ma quando iniziarono a trapelare i primi sintomi di insolvenza, il patron Tanzi fu messo da parte ed il titolo Parmalat fu sospeso dalle trattative.