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Diritto di critica | November 20, 2024

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Debiti e poca competitività: Italia in trappola - Diritto di critica

Debiti e poca competitività: Italia in trappola

L’Italia è in declino ed è sempre più marginale sulla scena internazionale. E’ quanto dichiarato da vari esperti intervenuti dal 26 al 30 gennaio all’incontro annuale del World Economic Forum a Davos, una serie di conferenze e incontri cui partecipano importanti capitani d’industria, politici, economisti e giornalisti, con lo scopo di illustrare ricerche e opinioni circa le condizioni economiche, politiche e sociali del mondo.

L’incontro di quest’anno si è caratterizzato per una sessione a porte chiuse dedicata all’Italia e in particolare ai suoi problemi. La discussione, che partiva da un esame della situazione italiana nei confronti del mondo, si è presto dedicata alla ricerca delle cause degli ormai riconosciuti declino e marginalità che caratterizzano il Belpaese.

Gli esperti, riporta la Repubblica, sono concordi nell’affermare che la causa principale di questo declino è l’immobilismo della politica, da dieci anni ben consciente delle riforme che si dovrebbero fare, ma che non vengono progettate nè messe in cantiere: il dibattito politico viene infatti spesso superato dalle chiacchiere e dagli scandali che coinvolgono il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e di cui il ‘caso Ruby’ rappresenta solo l’ultima variante (non dimentichiamo, ad esempio, lo scandalo Mills). Si contesta, in altre parole, lo svuotamento dell’agenda politica a favore di quella giudiziaria del premier, oltre che la presenza di un‘opposizione costantemente priva di bussola.

La risposta da parte italiana non è giunta dalla politica: Giulio Tremonti, pur presente a Davos, ha disertato la sessione. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha affermato che il tessuto industriale è forte, pur confermando buona parte delle tesi esposte, in particolare la marginalità dell’Italia nei confronti delle questioni proposte a Davos.

Nulla di nuovo, insomma. Va però sottolineata la totale inadeguatezza della nostra classe dirigente politica che ancora non riconosce quanto siamo vicini al punto di non ritorno. Il problema è sempre lo stesso: la mancanza di crescita dovuta alla scarsa competitività del sistema Italia, che compete con la Cina e non con il mondo avanzato, e poco conta se le esportazioni italiane siano seconde solo a quelle tedesche, poiché si tratta di settori tradizionali e poveri (l’esempio principe è l’industria tessile di Prato, emergenza denunciata da almeno sette anni).

La tragedia è ben sottolineata da un editoriale di Wolfgang Münchau sul Sole 24 Ore dell’11 gennaio scorso:

Per affrontare la scarsa competitività, l’Europa meridionale, Italia inclusa, avrebbe bisogno di una deflazione conclamata. In alcuni casi, prezzi e salari dovrebbero subire una riduzione del 30 per cento, per riallinearsi con i livelli dell’Eurozona settentrionale. Tuttavia, la deflazione aumenterebbe il valore reale del debito. Sembra ragionevole pensare che i paesi periferici riescano ad affrontare il problema della competitività oppure quello del debito, ma di sicuro non tutti e due insieme, senza il ricorso alla svalutazione o all’insolvenza.

Lo scenario proposto da Münchau è difficilmente scongiurabile, ma è possibile evitare almeno le ‘lacrime e il sangue’ ponendo in essere riforme dolorose che sventerebbero quantomeno la tragedia finale.

Va però utilizzata una certa dose di realismo. Si pensi alle piccole ma sacrosante riforme portate avanti da Bersani nella scorsa legislatura, le cosiddette ‘lenzuolate’ che dovevano aumentare la concorrenza, che hanno incontrato l’opposizione delle più o meno medievali corporazioni (dai farmacisti agli avvocati e ai tassinari) e che l’attuale governo ha scelleratamente eliminato a fini elettorali, dimenticando l’interesse del Paese.

Il governo Berlusconi ha evitato di trattare il problema principale: la scarsa competitività è dovuta alla scarsa o nulla concorrenza del tessuto economico italiano, caratterizzato invece da ‘orticelli’ più o meno grandi che ognuno difende strenuamente e che il governo non può o non vuole mettere in competizione (sebbene il compito di un governo sarebbe fare il bene del Paese andando oltre gli egoismi). Intanto il Governo si diletta in riforme ectoplasmatiche, come il federalismo fiscale, oppure discutendo vere e proprie assurdità, pensando di imporre ad esempio un’imposta patrimoniale in un Paese in cui la pressione fiscale complessiva è la più alta dell’universo, come scrive Arrigo su Chicago Blog.

La non-soluzione della patrimoniale somiglia, afferma Arrigo, a quella del tizio che va in banca a chiedere un prestito, offrendo come garanzia la casa del suo vicino: Tremonti vorrebbe offrire come garanzia ai mercati le case in cui abitiamo. Ma anche se si utilizzasse la patrimoniale, i problemi verrebbero risolti? No: il debito pubblico ritroverebbe un po’ di fiato, ma il Paese rimarrebbe nelle mani delle élites politiche di sinistra, ma soprattutto di destra, che governano da più di dieci anni e si rifanno spesso alla fallimentare ‘esperienza Craxi’ che tutto questo ha causato.

In altre parole, una volta tamponato il problema dell’insolvenza, chi ci assicura che questa classe politica sia in grado di attuare le riforme necessarie per ridare slancio alla competitività? Chi ci dice che dopo la patrimoniale la politica non continuerà ad ignorare i problemi del Paese, la disoccupazione, il precariato, la fame di giustizia (sia nelle aule dei tribunali che quella sociale), il sempre crescente costo della vita, la corruzione, la criminalità che dilaga strisciando nelle istituzioni? È come riproporre a livello nazionale la scandalosa gestione del caso Alitalia, chiosa Arrigo con l’ennesima efficacissima metafora: far pagare la Bad Italy ai contribuenti e affidare la Good Italy a quelli che hanno causato la rovina del Paese.

Con queste premesse, finiremo in una trappola che ci siamo costruiti da soli.

Photo credits | MadGeographer (Opera propria) [CC-BY-SA-3.0 o GFDL], attraverso Wikimedia Commons

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