Egitto: la rabbia dentro, aspettando il 25 gennaio - Diritto di critica
- Erica Balduzzi+
- 24 Gennaio 2011 Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
“Il 25 gennaio uscirò per ribellarmi contro la mia vita, non perché la odio ma perché molti egiziani che dovrebbero vivere come me sono invece lasciati a mangiare dai cestini dell’immondizia o a dormire in strada. […] Perché allora andare a protestare martedì prossimo? Perché martedì prossimo gli egiziani conquisteranno le strade di nuovo. Non ci saranno poliziotti, proiettili o manganelli che potranno spaventarci”.
A scrivere queste parole è Sara, ragazza egiziana di 28 anni che sceglie, con una lettera in inglese diffusa sul web e su Facebook, di dare voce al suo paese. Perché la rivolta, dopo Algeria e Tunisia, sembra aver raggiunto anche l’Egitto: il 25 gennaio toccherà ai giovani del paese di Hosni Mubarak – blogger e attivisti, ma non solo – scendere in piazza e gridare al mondo i loro problemi e la loro rabbia.
“Scrivo in inglese – continua Sara – perché non ho ancora sentito i media occidentali parlare della fase bollente che l’Egitto sta attraversando. La rabbia che è stata covata per anni è finalmente venuta alla luce: dove sono ora i corrispondenti stranieri dal Cairo? Probabilmente stanno aspettando […] di vedere cosa succederà il prossimo 25 gennaio. Vedete, noi egiziani non siamo ancora diventati ‘notizia’. Quando siamo picchiati dalla polizia, soltanto allora siamo degni di attenzione”.
La ‘fase bollente’ aveva già avuto possibilità di emergere con la vicenda di Khaled Said, che mentre si trovava in un internet cafè di Alessandria il 7 giugno scorso si rifiutò di esibire i documenti a due poliziotti senza mandato e per questo fu aggredito e ucciso dagli stessi agenti, che poi gettarono il corpo per strada per sottrarsi alla responsabilità dell’accaduto. L’episodio venne però derubricato a fatto di cronaca e la condizione di non-libertà dei cittadini egiziani riportata sotto silenzio: l’Egitto rappresenta infatti uno dei principali interlocutori arabi con l’Occidente, grazie al notevole grado di stabilità rispetto ad altri territori, che ha agevolato investimenti stranieri e turismo, sebbene organizzazioni umanitarie quali Human Rights Watch e Freedom House abbiano più volte criticato le persistenti violazioni dei diritti umani nel Paese.
“Possiamo diventare tutti Khaled Siad in qualunque momento – scrive ancora Sara – torturati e mutilati con la scusa dei controlli della polizia”.
Il riferimento è alla legge 162, la cosiddetta ‘legge d’emergenza’, ripristinata nel 1981 dal presidente Mubarak con lo scopo di difendere il Paese dalle azioni terroristiche dei gruppi armati e mai revocata: di fatto è diventata nient’altro che uno strumento per reprimere ogni voce di dissenso. Grazie a questa legge il Presidente può porre limitazioni rispetto alla libertà di movimento o di riunione, arrestare soggetti sospetti o pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico, stabilire la censura di articoli giornalistici, documenti, libri e quotidiani prima della loro pubblicazione e autorizzare l’ispezione di persone e luoghi senza sottostare a quanto prevede il Codice di procedura penale – come appunto è accaduto nella vicenda di Khaled Siad .
Una legge che, unita ad una situazione economica molto precaria, ha generato negli anni un clima di malcontento e paralisi, come testimoniano le parole di giovani egiziani sul web: “Siamo esperti a urlare e fare battaglie verbali- scrive ad esempio Ramez sul suo blog – ma quando si tratta del nostro sistema e di combattere per i nostri diritti, abbiamo paura e ci inginocchiamo davanti alla legge e al nostro sistema illegale. Maledetta legge!”.
E sono proprio i giovani, ora, a voler dire basta. La scintilla partita dall’Algeria ed esplosa in Tunisia, unita a condizioni economiche disastrate e alla diffusa disoccupazione, ha fatto scattare anche gli egiziani che, come Sara, hanno deciso di scendere in piazza. Pur sapendo che probabilmente la rivolta sarà pesante e violenta. E pericolosa.
“Ho solo 28 anni. Ho ancora davanti tutta la vita, quindi perché dovrei andare lì e morire? Semplicemente, per chiedere il diritto di essere tratta come un essere umano nel mio stesso paese. Perché la polizia non tratti bene gli stranieri e consideri noi cittadini di seconda classe. Per non temere più che i miei amici e i miei parenti siano fermati da un poliziotto di cattivo umore con il potere di violare i loro diritti civili. Perché le persone non siano più violentate, torturate e picchiate nelle stazioni di polizia. Perché la gente possa vivere una buona vita e non prendere meno di due dollari al giorno. Perché la maggioranza degli egiziani non sia più terrorizzata da un Governo che dovrebbe essere al loro servizio e non viceversa. Perché si possa avere una vera vita politica in Egitto. Martedì prossimo sarà un putiferio. […] Sarà come minimo caotico, ma dobbiamo pur iniziare da qualche parte”.
Il timore è che a capo del movimento di blogger e attivisti possano mettersi i Fratelli Musulmani, gruppo politico intermedio tra il regime di Mubarak e i gruppi estremisti nonché principale motivazione delle limitazioni alla piena libertà dei gruppi di opposizione. Essendo un soggetto con obiettivi politici e religiosi precisi, risulterebbe facile da comprare o reprimere a seconda delle necessità, cosa peraltro già successa in precedenza in fase di elezioni, quando i candidati indipendenti, una volta sconfitti i candidati di regime, venivano inglobati nel partito per garantire la maggioranza a Mubarak. Un rischio, quello di essere strumentalizzati, che pare tutt’altro che remoto.
“Questo movimento, o, come è chiamato dai giovani, rivoluzione, sarà usato dalle potenze politiche, dai movimenti religiosi e da chiunque voglia diventare ‘il nuovo’ in Egitto. Non c’è modo di controllarlo, nessun leader da mandare avanti e nessun partito politico che se ne prenda la responsabilità”.
Infine, nella lettera di Sara, si legge un appello.
“Non ci aspettiamo aiuto dai governi occidentali né ne abbiamo bisogno, ma contiamo sulla vostra potente macchina mediatica per portare alla luce ciò che sta accadendo ora in Egitto, per testimoniare realmente che i movimenti giovanili stanno cercando di fare la differenza. I media hanno il potere di cambiare, le parole possono essere più potenti delle pistole. Ci potete aiutare? Sono arrabbiata!”.
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