Golfo Persico: paradisi costruiti dagli schiavi - Diritto di critica
Pagati una miseria, illusi dal miraggio di ottime prospettive di occupazione, senza diritti e completamente in mano ai loro datori di lavoro: vengono da India, Nepal, Pakistan, Sri Lanka, Filippine ed Etiopia e sono i nuovi schiavi su cui si basa quasi interamente l’economia dei paesi del Golfo Persico. Un flusso di lavoratori a basso costo iniziato negli anno ’70 e andato crescendo in modo vertiginoso nell’ultimo periodo, che ha permesso a questi paesi di crearsi un’impeccabile reputazione internazionale, basata però sullo sfruttamento silenzioso di milioni di ‘schiavi legalizzati’. Se infatti nei primi anni ’90 il numero di immigrati nel Golfo Persico raggiungeva i 9 milioni, oggi si parla di più di 17 milioni di persone che soprattutto in Qatar, Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi e Arabia Saudita contribuiscono a creare i paradisi ambiti dagli imprenditori di tutto il mondo. Solo in Qatar e negli Emirati Arabi gli immigrati costituirebbero più del 90% della forza lavoro totale.
La denuncia arriva dall’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), secondo cui in questi paesi si ignorerebbero completamente i diritti dei lavoratori. In un paese come il Qatar, ad esempio, dove il reddito pro capite medio si aggira attorno agli ottantamila dollari l’anno, i lavoratori stranieri, impiegati soprattutto nei lavori domestici, prenderebbero all’incirca 60 centesimi all’ora, come da stipulato nei contratti in lingua araba –per loro spesso incomprensibile- che sono costretti a firmare. Il sistema di reclutamento per questa economica forza lavoro viene definito kafallah: una sorta di sponsorizzazione del futuro datore di lavoro, che invia i suoi agenti nei paesi di ‘raccolta’ dove le persone vengono illuse dalle prospettive di un cospicuo guadagno nei paesi del Golfo, finendo poi per ritrovarsi in condizioni di semi-schiavitù. Gli immigrati infatti impegnano i loro beni o contrattano prestiti onerosi per potersi permettere il viaggio verso il Golfo, affidando di fatto il proprio futuro e la propria vita ai ‘trafficanti in giacca e cravatta’: il datore di lavoro può trattenere il loro passaporto e dettare le sue condizioni, non solo a livello lavorativo ma anche per quanto riguarda l’alloggio o l’eventuale rimpatrio nel caso in cui lo ‘schiavo’ non sia più necessario. La crisi economica mondiale del 2008-2009 ha acuito quest’ultimo fenomeno: a causa della crisi lavorativa migliaia di immigrati sono stati costretti a ritornare nei propri paesi d’origine, molto più poveri di quando erano partiti. A ciò si aggiungono anche le condizioni di lavoro estreme: turni che possono raggiungere le 12 ore a temperature che spesso, soprattutto in estate, in questi paesi superano i 45 gradi. Nel 2010 questa problematica è stata rilevata in particolar modo durante il periodo del Ramadan, caduto tra agosto e settembre, che ha costretto i lavoratori di religione musulmana a turni sfiancanti senza né cibo né acqua in un clima torrido.
La mancanza di diritti e di tutele nei confronti dei lavoratori stranieri si ripercuote inoltre anche sul settore giustizia: il numero di immigrati in carcere o condannati a morte in questi paesi supera quello dei detenuti ‘autoctoni’. Secondo le stime ufficiali di Amnesty International –che tuttavia potrebbero rivelarsi parziali- alla fine del 2010 nella sola Arabia Saudita c’erano almeno 141 persone rinchiuse nel braccio della morte, di cui 104 di nazionalità straniera. Caso emblematico è la vicenda, sempre in Arabia, della giovane Rizana Nafeek, collaboratrice domestica originaria dello Sri Lanka, arrestata a maggio 2005 con l’accusa di aver ucciso il bambino a cui badava: la ragazza, condannata a morte, non ha avuto accesso ad alcuna assistenza legale né la possibilità di presentare in tribunale i documenti che le consentirebbero di evitare l’esecuzione.
L’intervento dell’ILO, tuttavia, ha permesso di mettere in campo modesti provvedimenti per tentare di contrastare questi sfruttamenti apparentemente legalizzati. In Qatar è stato creato un ufficio speciale per combattere il traffico di immigrati e il kafallah è stato abolito, come già era stato fatto dal Bahrein nel 2009, mentre in Kuwait e negli Emirati Arabi le timide riforme attuate in questo senso si sono rivelate quasi del tutto inutili perché ne sono esclusi proprio i lavoratori domestici, cioè i più abusati.
Ma ad inibire iniziative significative in questa direzione sono soprattutto la resistenza di una comunità degli affari che teme un aumento del costo del lavoro e l’importanza strategica che questi paesi rivestono per l’Occidente: gli interessi – non da ultimo il petrolio e gli investimenti agevolati- riposti nel Golfo frenano qualunque possibilità di critica in questo ambito. Impegnarsi a contrastare un fenomeno simile significherebbe togliere a questi paesi ciò che li ha resi così appetibili: come a dire, a chi mai dovrebbe importare se il paradiso è costruito con il lavoro degli schiavi?
Comments