«Fotti il Caucaso», il razzismo nel Paese di Medvedev e Putin - Diritto di critica
Scritto per noi da Arianna Pescini
Si apre un 2011 difficile per il gigante russo. E il problema (o forse solo uno dei tanti) che l’amministrazione del duo Putin-Medvedev si ostina a sottovalutare ha a che fare con la convivenza futura tra le decine di popoli ed etnie che abitano l’immensa Russia. L’ondata di razzismo che sta affliggendo il Paese comincia infatti a stridere con le affermazioni del governo russo (“La Russia è uno Stato multiculturale, dove persone di razze diverse vivono in pace”) e porta a riflettere sulla storia dell’ex Unione Sovietica, costellata da forzate integrazioni culturali ma in realtà polveriera piuttosto simile all’area balcanica.
Ultimo evento in ordine di tempo è l’omicidio di un tifoso estremista dello Spartak Mosca, rimasto ucciso il 5 dicembre scorso durante una rissa con nativi del Nord Caucaso. La tragedia ha scatenato l’ira dei naziskin russi e degli ultrà nazionalisti, che sono scesi in piazza scatenando tafferugli al grido di “La Russia ai russi” e “Fotti il Caucaso”. E la violenza corre anche sul Web, attraverso messaggi e minacce di rivendicazioni che si susseguono sui forum on-line di calcio.
Il bilancio dei fenomeni di razzismo degli ultimi anni è pesante: dal 2004 sono state uccise 430 persone provenienti dal Caucaso o dall’Asia Centrale, e altre 2600 sono state ferocemente picchiate. Proprio sette anni fa fece scalpore l’uccisione, a San Pietroburgo, di una bambina tagika di soli 9 anni; e ancora nel 2006 uno studente armeno perdeva la vita nella metro di Mosca, per una coltellata inferta da alcuni nazionalisti russi.
Il seme dell’intolleranza in Russia è germogliato a fasi alterne. Dopo la costituzione dell’Urss le diverse etnie e religioni del Caucaso sono state faticosamente tenute in vita, ma la politica ha agito sempre e comunque in nome dell’unità del Paese. Gli scontri che nascevano erano oscurati dalla propaganda: non si era azeri, tagiki o armeni, semplicemente si era membri del grande Stato comunista. I posti migliori nell’enorme e farraginosa macchina burocratica, però, erano riservati comunque ai russi, ai “bianchi”. E questo ha fatto sì che il risentimento degli altri popoli covasse sotto la struttura dell’impero socialista.
Con l’implosione dell’Unione Sovietica, a partire dal 1991, le dinamiche si sono capovolte: i movimenti indipendentisti hanno dato vita ovunque a nuove repubbliche; nei neonati Tagikistan, Azerbaigian, Kazakistan, Uzbekistan e altri Paesi ancora, a essere non graditi (e visti come usurpatori e spie del passato regime) sono diventati i russi, che hanno fatto per gran parte ritorno nella madrepatria. Ma il netto peggioramento delle condizioni di vita dell’area caucasica ha negli ultimi anni rinvigorito il fenomeno migratorio verso la più benestante Russia, scombinando nuovamente le carte. Ora il pericolo che si avverte è quello di una crescente insofferenza da parte della gente comune, quei tanti russi che in tempo di crisi ed incertezza vedono sempre più gli immigrati di pelle scura come una minaccia per la loro cultura e la loro tranquillità. Un insidioso razzismo popolare, fomentato anche da caucasici collusi con attività criminali, che macchiano con le loro azioni l’immagine di un intero popolo.
La polizia russa, che nei mesi scorsi è rimasta a guardare, è intervenuta sugli episodi di violenza con severe misure repressive, arresti e condanne. Anche al Cremlino si stanno rendendo conto che la situazione è seria.
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