Consulta e matrimoni gay, Bilotta: "Non è un nuovo no. Andiamo avanti" - Diritto di critica
L’avvocato Francesco Bilotta è uno dei cofondatori, insieme ai colleghi Saveria Ricci e Antonio Rotelli, di Rete Lenford, Avvocatura per i diritti LGBT, associazione che promuove la costituzione di una rete di avvocati, su tutto il territorio nazionale, che si occupano della tutela giudiziaria delle persone omosessuali e trans.
Sin dalla sua nascita la Rete, intitolata all’avvocato giamaicano Harvey Lenford, brutalmente ucciso perché difensore dei diritti delle persone sieropositive e perché gay, partecipa attivamente alla campagna lanciata dall’Associazione radicale Certi diritti, “Affermazione civile“. Sostiene, gratuitamente, le coppie omosessuali che vogliono sposarsi e le invita a chiedere la pubblicazione degli atti e, di fronte al rifiuto degli uffici comunali, a rivolgersi in tribunale. A partire da quelli di Venezia e di Trento, diversi giudici hanno posto dei dubbi di legittimità costituzionale su questi “no” e hanno rimesso la questione alla Corte costituzionale. La Consulta si è pronunciata nell’aprile 2010 dichiarando inammissibili le ordinanze di remissione in riferimento all’ipotizzata violazione degli articoli 2, sui diritti inviolabili dell’uomo, e 117 primo comma, sull’ordinamento comunitario e sugli obblighi internazionali. Sulla violazione dell’articolo 3 (principio di uguaglianza) e 29 (diritti della famiglia come società fondata sul matrimonio) la Corte le ha ritenute infondate. Ma l’Avvocatura per i diritti LGBT, anche sulla base delle motivazioni diffuse dalla Consulta, che rimanda alle Camere un intervento sul tema delle unioni tra persone dello stesso sesso, da allora non si è fermata. Vediamo a che punto siamo con l’avvocato Bilotta.
Avvocato, nei giorni scorsi è stata pubblicata una nuova sentenza della Corte Costituzionale sui matrimoni tra persone dello stesso sesso…
Non è una sentenza, è un’ordinanza: la questione non è solo lessicale, significa che la Corte non ha preso una decisione nuova, ma ha rinviato a quella che ha preso nell’aprile del 2010. Non aggiunge nulla, quindi. Da aprile in poi, se fossero arrivate altre 10 ordinanze di remissione, avrebbero generato altrettante ordinanze di inammissibilità, come questa.
Il percorso che più di due anni fa avete cominciato, come Rete Lenford, è in una fase di stallo a questo punto…
Noi stiamo continuando ad andare avanti. Chi fa l’avvocato sa che i tempi della giustizia sono lunghi, specialmente quando si tratta di riconsiderare, come in questo caso, una regola interpretativa che si dà per acquisita e immodificabile. I giudici di primo grado si stanno allineando tutti sulle posizioni della Consulta. Ci sono poi giudizi pendenti dinanzi alle Corti d’appello, ma non so se riusciremo a convincerli a tornare di nuovo, e con nuove motivazioni alla Corte costituzionale. E’ molto dura, ma l’obiettivo è arrivare in Cassazione altrimenti sarà impossibile rivolgersi alla Corte europea dei diritti umani.
Un nuovo ricorso alla Consulta è quindi obbligatorio?
Per come la vedo io un giudice coraggioso può decidere per il “sì”, per l’accoglimento dei nostri ricorsi, senza andare in Corte costituzionale. E’ bene ricordare che la sentenza dell’anno scorso non è vincolante per tutti, perché non è di accoglimento. L’interpretazione della Corte vincola soltanto i giudici che hanno sollevato la questione di costituzionalità, non gli altri. La remissione alla Corte costituzionale può essere effettuata in tutti i gradi di giudizio e anche più volte nello stesso procedimento, l’importante è che ogni volta si sollevino questioni nuove altrimenti l’esito sarà quello di quest’ultima ordinanza. Che per altro è la seconda perché un’altra identica c’è stata a luglio. Anche in quel caso ci fu disinformazione e poca chiarezza. Grandi titoli che suonavano ” nuovo no della Corte costituzionale ai matrimoni gay”, quando – come abbiamo appena visto – non è così.
Torniamo ai ricorsi in Corte d’Appello…
Siamo in appello a Roma, Genova, Torino e probabilmente presto a Bologna. Qui possono succedere tre cose: i giudici dicono di “no” e allora si impugna la sentenza direttamente in Cassazione; i giudici possono dirci di “sì” e a quel punto verosimilmente sarà l’Avvocatura del Stato a procedere con il terzo grado di giudizio; o possono dirci di “aspettare”: le nostre memorie potrebbero fargli venire altri dubbi di legittimità costituzionale che li indurrebbero ad una nuova remissione alla Corte costituzionale. A questo punto, di nuovo, la Consulta potrebbe accogliere i ricorsi e noi naturalmente ci fermeremmo là o potrebbe non accoglierli e dopo un breve ritorno in Corte d’Appello, si potrà presentare ricorso in Cassazione.
Il passaggio in Cassazione quindi diventa inevitabile…
Assolutamente! Finché avremo un giudice a cui poter fare la stessa domanda continueremo a farla!
Credo, ma spero di sbagliarmi, che i giudici d’appello non saranno così coraggiosi, a questo punto cosa preferisce: andare direttamente in Cassazione o un nuovo passaggio alla Corte costituzionale? Quale percorso lascia meglio sperare?
Io so di avere buone motivazioni per vincere! Stop! Non si può fare questo tipo di ragionamento, su quale sia la strada più facile, non ha senso.
Si adatta il percorso in base alla direzione che man mano questo prende….
Esatto, in una battuta: quando entri in aula sai come entri ma non sai mai come esci!
Un piccolo passo indietro: prima sottolineava quanta poca dimestichezza, nel mondo dell’informazione, c’è sull’argomento, sul percorso che Certi diritti e Rete Lenford stanno portando avanti. Dove crede che si debba fare chiarezza?
Due cose sono essenziali: la prima è che finalmente i giuristi italiani e tutta l’accademia italiana si occupano dei matrimoni gay. Non sono più considerati una questione di serie B, ma una questione da approfondire anche in convegni serissimi. Solo due anni fa una cosa del genere era impensabile! Il secondo dato, quasi più importante del primo, è che la Consulta ad aprile ha detto due cose: che il Parlamento deve decidere se estendere alle persone gay il matrimonio e che la coppia omosessuale, sottolineo la coppia…
Quindi non i diritti delle persone che compongono la coppia, come si leggeva nel programma dell’Unione, del Pd e poi in alcune proposte di legge…
Esatto! Non i singoli, non diritti individuali, ma la coppia – questo è importantissimo – la coppia ha il diritto fondamentale a un riconoscimento giuridico.
Ma passando la mano al Parlamento si rischia che la questione finisca nel dimenticatoio…
No, perché la sentenza spiega che gli interessi che le coppie gay hanno in comune con le coppie coniugate eterosessuali devono ricevere ora la stessa tutela.
E se dalle Camere non arrivassero risposte?
Se non ci si adegua spontaneamente a questa regola la Corte si è riservata di tornare su singole specifiche questioni per sancirne l’incostituzionalità. Su questo il paragrafo 8 della sentenza dell’aprile scorso, la 138/2010, è molto chiaro!
Il paragrafo della sentenza a cui fa riferimento l’avvocato Bilotta recita così:
“L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.”
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