Editoriale: 14 dicembre, alla ricerca della fiducia - Diritto di critica
Roma si è svegliata da poco. Nei palazzi del potere si contano i minuti, mentre nelle vie, nelle piazze, la protesta silenziosa si prepara alla marcia. Sembra un giorno qualunque, se non fosse per quell’elicottero insistente che da ore si aggira nei cieli della città. Dietro alle scrivanie degli uffici, una sbirciatina ogni tanto per vedere cosa accade là nelle aule. Aule parlamentari mai state così piene. Aule universitarie mai state così vuote. Il corteo avanza composto, avvolgendo il cuore blindato dell’Urbe.
Gli attori sono tutti lì, pronti alla grande battaglia. Il re e la sua corte agganciati fino all’ultimo al loro trono. Il consigliere traditore che si gioca l’occasione di tornare a contare qualcosa; da troppo tempo defilato, da sempre all’ombra del sovrano. Gli avversari assetati di sconfitta, perché il potere si sa, logora chi non ce l’ha. Il popolo è là fuori, stanco delle ingiustizie e delle inadeguatezze di chi dovrebbe rappresentarlo. È l’inizio, o forse la fine di una storia senza tempo, di un copione già visto, di qualcosa che alimenta i perversi ingranaggi di questo Paese.
Nei palazzi la fiducia si conta. Come un infallibile calcolo matematico. O c’è, o non c’è. E da essa dipende il potere, quello vero, quello che nessuno può intaccare. Nella piazza la fiducia si cerca: la fiducia per il futuro, la fiducia per un lavoro dignitoso, per una casa da costruire, per una famiglia da mantenere. In fondo è tutta colpa della crisi. Quella economica toglie il pane, quella di governo non lo restituisce.
Tra le poltrone partono le dichiarazioni, gli attacchi, le accuse: fuori il silenzio, dentro le grida. I toni si accendono e da lontano il rumore sordo delle prime bombe carta rompe la compostezza della protesta. Il Senato vota la fiducia e i primi infiltrati escono dalla folla. La guerra ora si gioca lì, tra i banchi della Camera, e mentre Bersani attacca il premier, gli insorti circondano Palazzo Madama. Qualche ora dopo si contano le teste dei deputati: tre quelle che regalano la fiducia al re. È tradimento nel tradimento. L’infedele soccombe per mano dei suoi alleati, mentre il nemico di sempre, inerme, come ad ogni sconfitta, resta a guardare. La coerenza non è di questo mondo, non è di questo Paese.
Lo scontro esce dall’aula. Il corteo silenzioso si allontana, lasciando spazio alla violenza senza limiti. Roma brucia. Brucia Piazza del Popolo, via del Babuino, via del Corso. Bruciano le camionette degli agenti, i cassonetti. Il paese si spacca. Si spaccano le vetrine dei negozi e gli sportelli dei bancomat. Sotto i colpi di pale e spranghe l’Italia si piega alla forza della vergogna. L’esercito degli insorti non risparmia nessuno, infanga la manifestazione pacifica, compromette la sicurezza del dissenso. Il Parlamento si svuota. La piazza si riempie di fumo e inciviltà. La città viene messa a ferro e fuoco e scene di guerriglia urbana si susseguono una dopo l’altra, come i fotogrammi di un vecchio documentario della fine degli anni ’70. Ma è il presente nella sua manifestazione più sgradevole, frutto di un passato da dimenticare, incapace di infondere fiducia nel futuro.