Yara, Sarah Scazzi, Marta Russo: quando le inchieste “ripartono da zero” - Diritto di critica
Dopo la scarcerazione del marocchino fermato nei giorni scorsi per la scomparsa di Yara Gambirasio, giornali e telegiornali hanno scritto e detto che “le indagini ripartono da zero” e non viene esclusa “alcuna pista”. Lasciando fuori il caso di Yara, la storia giudiziaria recente e passata è costellata di indagini e processi che hanno dovuto fare i conti con perizie sbagliate, locali posti sotto sequestro troppo tardi, testimoni che ritrattano. L’ultima in ordine di tempo è l’inchiesta per l’omicidio di Sarah Scazzi. Il garage in cui sarebbe stato consumato l’omicidio è stato posto sotto sequestro solo diverso tempo dopo l’arresto di Michele Misseri che a sua volta ha spesso cambiato la versione dei fatti.
Il caso Cucchi e Claps, invece, ricordano un’altra variante che con casi come Ustica o Marta Russo ha fatto scuola: la guerra delle perizie. La difesa produce perizie, la parte civile produce perizie, il collegio produce perizie, montagne di carte tese a confondere le acque più che a fare chiarezza.
Sotto il profilo della complessità delle indagini, l’inchiesta per l’omicidio di Marta Russo è emblematica e racchiude quasi tutti gli elementi di cui sopra. Di contro, dal momento che si tratta di un caso chiuso è più semplice prenderlo ad esempio senza strumentalizzare un’inchiesta ancora in corso.
I pubblici ministeri che seguirono le indagini, all’epoca si trovarono al centro di un vero e proprio fuoco incrociato di perizie, testimonianze e ritrattazioni che complicarono non poco il loro lavoro. La stessa perizia di Giacomo Falso che affermava di aver rinvenuto un residuo di sparo sul davanzale dell’Aula assistenti (la famosa Aula 6, si trattò di una particella di “bario-ferro-antimonio”, assolutamente incompatibile con la cartuccia del proiettile usato nell’omicidio che rilasciava invece piombo-bario-calcio, oltre a tracce di fosforo), venne duramente contestata da più parti e fu effettuata in un locale che non era stato posto sotto sequestro. Diverso, invece, il discorso per il bagno disabili al piano rialzato della facoltà di Statistica, fin dall’inizio ritenuto dalle forze dell’ordine il più probabile punto da cui era partito lo sparo.
«Il più accreditabile luogo da cui è stato esploso il colpo – si legge in una relazione delle forze dell’ordine datata 12 maggio 1997 – è stato il bagno per handicappati della Facoltà di Scienze Statistiche […] La linea di tiro ideale tra i citato bagno e il punto ove è stata colpita Marta Russo prosegue fino a raggiungere sul muro prospiciente ad una distanza di due-tre metri dalla porta d’accesso del più volte citato magazzino». Al centro delle indagini del caso Marta Russo, entrarono numerosi dipendenti della di pulizie Pult.Tra che, scrive la polizia, proprio da quel bagno erano «sicuramente soliti “divertirsi” a sparare così come è emerso in sede di intercettazione ambientale e che gli stessi hanno volutamente taciuto agli investigatori», circostanza confermata anche da alcune scalfiture di proiettile rinvenute sul muro davanti al bagno di Statistica, in corrispondenza con la linea di tiro che intersecava la figura di Marta Russo. Tali scalfiture scriveva la Polizia – «dimostrano e confermano che anche in precedenza all’evento delittuoso, e probabilmente dallo stesso punto di fuoco, sono stati sparati dei colpi». La relazione si chiude con una notazione importante «I dipendenti della ditta di pulizia osservano una pausa tra le 09.20 e le 14.00: pertanto nell’orario del tentato omicidio erano tutti liberi da impegni lavorativi».
Ad indicare il bagno di Statistica come punto quantomeno “sospetto”, inoltre, fu il ritrovamento il 15 maggio successivo – di un batuffolo di carta igienica nella toppa della porta del gabinetto per disabili, le cui chiavi erano state rubate diversi mesi prima. Per chiuderlo veniva utilizzato il “telefono” di una doccia legato alla maniglia. E sempre nel bagno disabili un’ora dopo il ferimento di Marta Russo venne ritrovata una «piastra metallica con vite», proprio sotto il davanzale: poteva servire a tenere socchiusa la finestra con i vetri smerigliati per meglio nascondersi? Nascondeva un’arma?
Prima della svolta nelle indagini, con i pm che indagano Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, le forze dell’ordine fecero in tempo ad intercettare diversi dipendenti della ditta di pulizie Pul.Tra e a sequestrare numerose pistole giocattolo (e non) munite di silenziatori artigianali (il colpo che ha ucciso Marta Russo aveva attraversato un silenziatore). Finì nell’inchiesta anche un dipendente della Sapienza, Rino Zingale, nella cui abitazione venne rinvenuto un vero e proprio arsenale per cui i poliziotti incaricati della perquisizione riempirono diverse pagine di verbale: proiettili, bilancini di precisione, 3500 bossoli esplosi di «vari calibri», un visore notturno, 21 fondine per pistola, pugnali, due ricetrasmittenti, ogive lavorate artigianalmente, oltre a pistole e materiale in dotazione alle forze di Polizia (penitenziaria). Tutti gli indagati, però, uscirono dalle indagini con “la svolta”, una sorta di punto “zero” da cui ripartirono gli inquirenti dopo la perizia Falso e le successive testimonianze di Maria Chiara Lipari, Francesco Liparota (che poi ritrattò) e Gabriella Alletto (che per settimane intere negò di essersi trovata nell’aula 6 al momento dello sparo ma che il 14 giugno cambiò improvvisamente versione, accusando Scattone e Ferraro e venne ritenuta attendibile dagli inquirenti).
Il seguito della vicenda è a tutti noto. Dopo una prima marcia indietro della Cassazione che ordinò di celebrare un nuovo processo e criticò fortemente le indagini svolte, Giovanni Scattone venne condannato a cinque anni e quattro mesi non per omicidio volontario, come era stato inizialmente chiesto dai pubblici ministeri, ma per omicidio colposo: fu un incidente. Secondo l’accusa, infatti, Scattone sparò in pieno giorno, sporgendosi da una finestra visibile da chiunque, senza premurarsi di chiudere la porta della sala assistenti e anzi alla presenza di diversi testimoni che non ebbero alcuna reazione, non un urlo né una denuncia immediata dell’accaduto. Il tutto con la complicità di Salvatore Ferraro il quale, sapendo Scattone colpevole, accettò il carcere pur di sostenere l’omicida. Non vennero ritrovati mai né il bossolo (plausibilmente caduto all’esterno dell’edificio) né la pistola da cui partì il colpo che uccise Marta Russo.
Come anche nel caso Scazzi, inoltre, le prime testimonianze furono le più controverse. Liparota, per primo, ritrattò la sua testimonianza mentre la teste chiave, Gabriella Alletto, decise di “dire tutto” oltre un mese dopo, a giugno. Numerose anche le perizie che fecero da cornice al caso Marta Russo e crearono non poche difficoltà al lavoro dei magistrati. Al centro della vicenda, infatti, la traiettoria del proiettile. Tra gli esperti chiamati in causa, anche Ezio Zernar, il superpoliziotto finito sotto processo per le analisi effettuate durante indagini su Unabomber.
Come per il caso Gambirasio, inoltre, anche per Marta Russo si parlò di piste alternative. Prima tra tutti quella terroristica – la studentessa venne ferita nell’anniversario della morte di Aldo Moro – circostanza poi abbandonata dagli inquirenti (che pure assicurarono di averla approfondita con ogni precauzione) né ripresa in considerazione quando, all’indomani dell’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, si scoprì che Paolo Broccatelli, appartenente alle Nuove Brigate Rosse, proprio la mattina del 9 maggio 1997 era in servizio presso una delle ditte di pulizia della Sapienza. D’Antona venne ammazzato il 20 maggio di due anni dopo.
A questa pista, inoltre, se ne aggiunse un’altra di matrice internazionale. La mattina del 9 maggio 1997 chi avesse acquistato e letto “Il Giornale”, allora diretto da Vittorio Feltri, avrebbe trovato le prime tre pagine interamente dedicate a minacce di attentati terroristici a Roma, da parte di terroristi islamici.
Come ricorda il testo scritto da Beretta e Anguissola, infine, il giorno prima del ferimento di Marta Russo, in televisione avevano trasmesso Schindler’s list, in cui si vede un militare nazista prendere la mira da una finestra e sparare ad alcuni ebrei in un cortile. Tutte ipotesi che gli inquirenti – sulla cui buona fede e sul cui buon senso non è lecito dubitare, vista anche la complessità di una simile indagine – assicurarono di aver approfondito.