Metropolitana di Roma, l'incidente del 2006 frutto di bonus, pressioni e standard di qualità - Diritto di critica
Raggiungimento degli standard di qualità e il relativo bonus, il sistema di protezione del treno disattivato e la prospettiva di pesanti tagli sullo stipendio ai macchinisti “disobbedienti”. È questo il mix di ingredienti che secondo la procura di Roma avrebbe portato all’incidente ferroviario della metropolitana di Roma del 17 ottobre 2006 in cui perse la vita Alessandra Lisi, giovane ricercatrice di trent’anni e 452 passeggeri rimasero feriti.
Secondo l’accusa che ha rinviato a giudizio un macchinista e tre ex dirigenti della società Met.Ro (SCARICA IL DOCUMENTO), i macchinisti sarebbero stati indotti «pena la posposizione nell’ordine di partenza, con la conseguente effettuazione di un numero inferiore di corse e la corrispondente ricaduta sulla retribuzione – a non accumulare ritardi nell’espletamento delle corse sulla linea A della metropolitana di Roma e a percorrerla in un tempo inferiore a quello previsto in applicazione delle norme di sicurezza, risultato ottenibile soprattutto in orario di punta, solo con la disattivazione del sistema ATP (Automatic train protection, ndr), in modo da poter viaggiare a velocità superiore a quella consentita e tenere una distanza ravvicinata tra i convogli precedenti».
A finire sotto inchiesta sono stati il macchinista, Angelo Tomei, insieme a Gennaro Antonio Maranzano (responsabile dell’area esercizio e produzione di Metro), Roberto Gasbarra (responsabile del coordinamento del movimento metropolitane) ed Ernesto De Sanctis (capo servizio Metro A).
La versione che emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio se confermata sarebbe gravissima. Secondo quanto scrive il pubblico ministero, infatti, il macchinista avrebbe disattivato «in assenza di presupposti, il sistema automatico di sicurezza continuo ATP, in maniera tale da poter superare il limite di velocità di 15km/h, consentito dal segnale S148 posto all’uscita della fermata Manzoni, che indicava rosso permissivo, senza far entrare in funzione il freno di emergenza e blocco automatico – operazione che compiva senza la necessità di spezzare il filo piombato posto a protezione di detto sistema di sicurezza continuo ma solo sfilandolo – e portando il convoglio alla velocità di 52 km/h».
Questo comportamento, secondo l’accusa, sarebbe stato messo in atto «al fine di raggiungere la massimizzazione dei profitti per la società e non subire l’applicazione delle penali contrattualmente previste dagli accordi con il Comune di Roma titolare del servizio pubblico, che versava i corrispettivi in proporzione dei treni/chilometri oltre ad un bonus per il raggiungimento degli standard di qualità, e con l’Atac spa, erogatore dei biglietti ai passeggeri che versava i corrispettivi in proporzione dei posti chilometri».
In poche parole, secondo l’accusa, il maggior numero di corse rispetto a quelle previste e la paventata decurtazione dello stipendio sarebbero legate ad una massimizzazione dei profitti e al raggiungimento di fantomatici standard di qualità che di solito nelle aziende si traducono in premi in denaro per i dirigenti. Il bonus, appunto. Per ottenere questi risultati, i macchinisti dovevano sfilare il filo che passava per il sigillo di protezione in piombo, disattivando manualmente il sistema che rallentava automaticamente il treno in caso di mancato rispetto della distanza di sicurezza. Il 18 gennaio prossimo di celebrerà l’udienza preliminare.
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