Caporalato nell'edilizia, una realtà tutta lombarda - Diritto di critica
- Erica Balduzzi+
- 18 Novembre 2010 Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
«Un’altissima percentuale di lavoro nell’edilizia lombarda avviene tramite caporalato».
Non lasciano adito a dubbi le parole di Alessandro De Lisi, responsabile del Progetto San Francesco, il programma antimafia della Cisl, e consulente nella Commissione Parlamentare antimafia: l’edilizia lombarda si basa sullo sfruttamento dei lavoratori nei cantieri. Una realtà niente affatto nuova, portata alla luce anche dai recenti episodi di Brescia, dove alcuni lavoratori stranieri hanno per giorni portati avanti la loro protesta dalla cima di una gru.
E se alla menzione della parola ‘caporalato’ la mente corre subito al Sud Italia e alle varie Rosarno, De Lisi ci tiene a specificare che il fenomeno riguarda fin dalle sue origini in particolare il Nord. «Quando si parla di raccolta pomodori o raccolta di aranci – spiega – ci si riferisce in realtà ad espressioni dirette della criminalità organizzata. Il caporalato vero e proprio nasce cinquant’anni fa in Lombardia, e precisamente in Stazione Centrale a Milano, dove le associazioni di caporali ‘cammellavano’ i migranti che dal Sud facevano rotta verso Nord alla ricerca di un lavoro. Ecco perché – continua – in Lombardia c’è anche oggi una sorta di giustificazione del caporalato come pratica diffusa tradizionalmente».
La cultura delle ‘squadre’, ovvero gruppi di lavoratori per i cantieri assoldati alla giornata o alla settimana per salari miseri, ha caratterizzato infatti fin dal dopoguerra la realtà edile del Nord, in particolare nelle province di Bergamo e Brescia. «Queste forme di ‘caporalato nostrano’ – racconta Battista Villa, segretario regionale della Filca Cisl – sono state favorite dalla frammentazione dell’edilizia nell’organizzazione del lavoro, causata a sua volta dai continui subappalti. Con l’avvento di numerosi immigrati nella realtà sociale della zona – aggiunge – il modello locale è stato poi assunto da caporali stranieri, che hanno dato il via a vere e proprie reti di sfruttamento con numerosi paesi extracomunitari». Reti che coinvolgono in particolare immigrati rumeni e albanesi, ma anche egiziani e marocchini: persone fatte giungere dai loro paesi d’origine e costrette a lavorare per mesi senza avere nemmeno la certezza di ricevere una misera retribuzione, completamente dipendenti –e quindi ricattabili- da chi ha procurato loro un lavoro. Si parla di circa 500 euro al mese, quando va bene, con cui devono pagare alloggio e caporale: una cifra irrisoria, se si considera il lavoro massacrante a cui queste persone sono sottoposte per anche dieci, dodici ore al giorno.
Questo tipo di sfruttamento è causato soprattutto dalla mancanza di controlli nel mondo dell’edilizia. «Chiunque – racconta Villa – può andare alla Camera di Commercio, aprire partita iva e diventare imprenditore edile, senza che gli venga richiesta una conoscenza anche elementare delle regole di sicurezza, organizzazione e diritto del lavoro. Senza una qualificazione di questo tipo, è praticamente impossibile contrastare lo sfruttamento».
A ciò si aggiungono i problemi di tipo legale: ad oggi il caporalato è considerato reato amministrativo, e quindi punibile con una semplice sanzione. « Noi vorremmo – spiega De Lisi- che venisse trattato come reato penale di tipo associativo, all’interno del capitolato che riguarda il 416-bis, ovvero l’associazione mafiosa. Si tratta di una battaglia culturale, oltre che politica. Il caporalato è nato in un contesto di crisi- continua- ed ora la situazione economica disperata favorisce il ripresentarsi del medesimo scenario: da una parte i lavoratori ‘fragili’ (stranieri, ma anche italiani che hanno perso il lavoro), dall’altra il caporale, che assume quasi la valenza di ‘benefattore’».
La difficoltà principale nel contrastare fenomeni di questo si riscontra nella quasi totale mancanza di dati certi e denunce dirette. Sebbene un articolo della Bossi-Fini preveda infatti che uno straniero irregolare ottenga il permesso di soggiorno nel caso in cui denunci il suo sfruttatore, questo avviene assai raramente. «L’edilizia oggi è un campo molto più forte degli strumenti di legalità, perché in essa si trovano gli interessi di molti istituzioni – afferma ancora De Lisi – e il rischio personale per chi denuncia è troppo alto. Per questo – conclude – il caporalato si può combattere solo nel momento in cui lo si riconosce non come tradizione giustificabile, ma come vero e proprio reato».
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