Cosentino si è dimesso. L'esecutivo perde la terza pedina a causa di scandali - Diritto di critica
Benvenuti alla fiera del “già visto”. Ormai è consuetudine, da mesi a questa parte, che nomi appartenenti al PdL si ritrovino coinvolti in scandali, in malaffari, in presunti rapporti con associazioni di stampo mafioso. Le operazioni inerenti alle indagini non tardano a circolare – in maniera “soft” o completa – sui giornali. E poco c’è da fare quando prove, spesso schiaccianti, vanno a colpire (anche marginalmente) politici di rilievo. Sempre più di frequente appartenenti alla maggioranza. Il garantismo prevede la “presunzione di innocenza”, è innegabile. Però il mero coinvolgimento, specie quando ci si vanta della lotta alla criminalità dai vertici, dovrebbe spingere una persona a rimettere immediatamente i propri mandati, senza troppa solidarietà. Questione di trasparenza.
Invece c’è chi strepita soltanto, come una donnicciola che fa l’impavida per farsi bella agli occhi delle compagne. Ma che, nel privato, se vedesse un ragno sul pavimento di casa, salterebbe sulla sedia gridando all’impazzata. “È colpa dei giudici“; questo il copione, nel caso concreto. Condito da paroloni forbiti alternati a frasi ad effetto dall’ovvio significato. Un comportamento che ricorda anche gli studenti indisciplinati. Quelli che piangevano a casa perché “i professori (tutti) ce l’avevano con loro”. Con la realtà ben diversa. Chiunque si è ritrovato un professore “bastardo”. Ma poteva essere “uno”, forse erano “due”. In caso di sfiga estrema, “tre”. Non una massa generalizzata, sempre nello specifico chiamata “toghe rosse” o “sistema giacobino” (così definita nonostante tesi platealmente contrarie).
Stessa questione vale per le casistiche: ci si può ritrovare in mezzo ai casini alcune volte. Quando quelle “alcune volte” divengono sette o otto, una persona normale si preoccuperebbe. Non si turerebbe il naso facendosi plagiare e autoconvincendosi che “va tutto bene perché lo dice il Presidente del Consiglio”. Non farebbe orecchie da mercante sostenendo che “la vita non cambia”. Non si fiderebbe ogni volta che “la crisi economica è passata”. Invece no: rimane inetta ad ascoltare e assorbire, inerte alle rapide smentite non approfondite. Poco importa se ci sono “pezzenti comunisti” che sanno solo inveire e “incitano all’odio le masse”. Perché l’ “amore vince sempre”.
E allora, onde evitare attacchi di opinione pubblica e stampa contro taluni soggetti, onde evitare che qualcuno rimembri il concetto indispensabile della “legalità“, onde evitare complicazioni interne alla coalizione, onde evitare rimpasti, onde evitare mozioni di sfiducia con rischio di cadere definitivamente, è meglio organizzarsi. Basta citare solo qualcuna delle idee poste in essere. “Ghe pensa lù“: anche a costo di estromettere in prima persona qualche testa calda – a suo parere – dal partito. In nome della libertà, della democrazia.
Punto uno: limitare la disciplina sui principali mezzi di ricerca della prova (leggasi intercettazioni). In correlazione, diffondere alla cittadinanza il credo “siamo tutti intercettati“; logicamente e fattivamente impossibile: basta immaginare un addetto costretto ad ascoltare, sfogliare, montare milioni di nastri in più riprese. Quanto impiegherebbe? Punto due: mettere dei paletti alla pubblicazione di determinato materiale in mano ai mass-media. Dato che “gli italiani hanno scelto questo Governo”, che deve andare avanti per la salvaguardia del pubblico interesse, non bisogna infangarne i membri con vicende private (spacciate per roba “di poco conto”, “spazzatura“), lasciando loro abbastanza tranquillità e capacità di agire. Punto tre: immunizzare da processi penali le maggiori cariche dello Stato e, perché no, estendere la garanzia a tutti i ministri. Con urgenza.
Viene preferito un cammino verosimilmente incompatibile con la Costituzione, nonché decisamente impopolare. Indispensabile per salvare una situazione che rischia di compromettersi, tra lotte intestine e pessimi finali. Nel periodo più recente c’è chi si è dovuto sacrificare per difendere la sopravvivenza dell’Esecutivo. Senza annoverare i precedenti dei singoli, prima è toccato a Scajola, reo di avere l’abitazione ove risiedeva (vista Colosseo) “comprata a sua insaputa” (sic). Poi è stato il turno di Brancher: ministro per poche ore (di non si sa bene cosa) e un processo a carico. Ora Cosentino, già incastrato in faccende di camorra poco acclarate, invischiato in una novella storia di massoneria e costretto alle dimissioni per evitare il voto di fiducia. In realtà la lista è ancora più lunga, con nomi altisonanti impressi comunque sulle carte giudiziarie, ma ancora seduti al proprio posto. Esempi? Dell’Utri, Verdini, Formigoni e, con una discreta frequenza, persino il premier in carica.
Ave, Caesar, morituri te salutant.
[Foto tratta da “L’Espresso”.]
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