Il dramma dei profughi eritrei in Libia, tra torture e lavori forzati - Diritto di critica
“Ci stanno ammazzando. Fate qualcosa”.
Questo il messaggio ricevuto da Moses Zerai, direttore dell’agenzia eritrea Habeshia, da un clandestino eritreo detenuto nel carcere di Misurata, dove vengono assiepati gli immigrati provenienti dal Corno d’Africa e consegnati alla Libia da navi maltesi o italiane.
Era il 6 giugno scorso quando in acque internazionali, a circa 20 miglia da Lampedusa, una nave con a bordo circa 250 clandestini eritrei, tra i quali anche donne e bambini, venne intercettata da una nave militare libica, probabilmente dopo una segnalazione da parte delle autorità italiane o maltesi. Dal 30 giugno, queste persone ed altre (tra cui diversi migranti respinti a partire dal 17 maggio dello scorso anno in Libia dai mezzi militari italiani, sebbene questo tipo di respingimenti fosse vietato dalle convenzioni internazionali) sono rinchiuse nel centro di detenzione di Al Braq, in mezzo al deserto, 75 chilometri a sud di Sebah; i prigionieri vi vengono deportati con un estenuante viaggio senza né cibo né acqua, in un container infuocato e affollato dove la temperatura raggiunge anche i 50 gradi.
La realtà di chi vive in questo carcere è stata resa nota grazie all’interessamento di Rai Tre e de L’Unità, che hanno permesso di scoprire gli abusi e le sevizie a cui i detenuti sono sottoposti quotidianamente: botte, bastonate e violenze, a cui si aggiungono carenza di cibo e acqua, mancanze igieniche e totale negazione dell’assistenza sanitaria e medica anche a quelle persone che hanno riportato ferite o fratture in seguito ai pestaggi (definiti leciti dal direttore del carcere, per il quale i detenuti sono stati “fortunati a prendere solo tante bastonate”, perché hanno “infranto la legge libica e questo non è accettabile“).
Da parte del governo italiano non si trova che un muro di silenzio o risposte vaghe sull’entità, e soprattutto sulle responsabilità, del problema –come testimoniano le parole del Ministro dell’Interno Maroni: “Il governo italiano non ha alcuna responsabilità nella vicenda dei profughi eritrei trattenuti in Libia. […] Se si chiederà al nostro governo di fare una missione umanitaria in Libia, il ministro degli esteri ne vaglierà l’opportunità”, e ancora: “Rifiuto decisamente le responsabilità che pure sono state attribuite al nostro Paese, che non derivano certo dall’accordo che abbiamo con la Libia: abbiamo accordi bilaterali con almeno 30 Paesi e questo non vuol dire che dobbiamo occuparci di quello che accade in ciascuno di essi. Certo, la Libia ci è vicina, non avrei obiezioni personalmente a un’azione di tipo diplomatico, ma più e meglio di noi dovrebbe fare l’Unione europea” -, mentre dall’opposizione si leva qualche voce, a partire dall’europarlamentare del Pd Rita Borsellino, che chiede che gli accordi con Tripoli garantiscano il rispetto dei diritti umani e del diritto di asilo per i rifugiati, e dal parlamentare Pd Jean-Leonard Touadi.
E’ all’interno di questo clima diplomatico fin troppo tranquillo, data la gravità della vicenda, che si inserisce senza destare alcun scalpore un’altra notizia proveniente sempre dallo stesso carcere di Al Braq: la notizia riguarderebbe la firma di un “accordo di liberazione e residenza in cambio di lavoro“, come lo definisce il ministro della Pubblica Sicurezza Libico, il generale Younis Al Obeidi, che consentirà agli eritrei rinchiusi nel centro di detenzione di uscire, in cambio di “lavoro socialmente utile in diverse shabie (comuni) della Libia”. Un accordo che già molti profughi, nella speranza seppur vaga di lasciare l’inferno dove sono stati rinchiusi, hanno già firmato.
Secondo il professor Fulvio Vassallo Paleologo dell’Università di Palermo che scrive dal sito meltingpot.org, la vicenda assume contorni molto più inquietanti di quanto possa apparire ad una prima lettura. L’accordo infatti non prevedrebbe alcun tipo di garanzia, né sul riconoscimento del diritto di asilo ai profughi, né sulla loro conseguente libertà di circolazione, né sulla cessazione degli abusi a cui sono sottoposti; inoltre questo accordo renderebbe ancora più difficoltosa la verifica della situazione e delle responsabilità internazionali sulla vicenda.
L’accordo appare quindi, sotto questa luce, come un programma di lavori forzati a tempo indeterminato, il tutto ‘sistemato’ con il silenzio-assenso di quei politici – anche italiani – che preferiscono lavarsene le mani e scaricare su ipotetici “altri” la responsabilità della vicenda, come se fossero stati “altri” a prevedere il respingimento dei profughi in acque internazionali e a premere per forme di collaborazione con un paese come la Libia, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati, favorendo in tal modo le più terribili violazioni dei diritti fondamentali della persona.
Un prezzo da pagare, evidentemente, per quei gruppi politici che hanno visto nel Trattato di Amicizia Italia-Libia la garanzia del proprio successo in patria: il Trattato infatti prevede il pagamento da parte dell’Italia di cinque miliardi alla Libia per continuare a garantirsi il blocco degli sbarchi e numerosi affari in Libia per alcune nostre aziende italiane. Di fatto, in nome degli interessi economico-politici di una lobby spregiudicata è stata autorizzata una tragedia umana di dimensioni immani, sfociata nelle violenze più atroci e in quella piaga sociale ed umanitaria che le società civili dovrebbero impegnarsi ad abbattere, anziché fomentare: la schiavitù.
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